di MICHELE BORDONI – La verticalità è uno di quei concetti che, se accostato immediatamente ad una figura lineare, tende a darsi al pensiero come un vettore orientato in alto, come una freccia che punti verso il cielo. La correlazione fra verticalità ed elemento aereo, mobile e celeste, è forse un residuo connesso al piano cartesiano, che spinge verso l’alto lo sguardo lungo l’asse delle ordinate, risultando così la verticalità una progressione dal negativo al positivo. Maddalena Lotter
Che quella linea possa assumere l’orientamento opposto è più difficile, meno pensabile; la linea verticale è sempre simbolo di una progressione ascendente. A distruggere questo luogo comune basterebbe l’esempio dei progetti della Sagrada Familia di Gaudì, progetti nei quali, per ottenere lo slancio e l’altezza delle cuspidi della chiesa, si costruisce un complesso sistema di fili e contrappesi; dei sacchetti legati con delle corde a un punto fisso, spinti in basso dalla forza di gravità, permettono all’architetto di immaginare, ruotata di centottanta gradi, la futura struttura dell’edificio. La verticalità “leggera” è frutto di un’opposta verticalità “pesante”.
Il libro di Maddalena Lotter (Verticale, LietoColle, pp. 94, € 13,00) è un tentativo di declinare la doppia leggibilità della linea verticale nella lingua di una poesia moderna, sorvegliata a livello stilistico ma mai chiusa per questo alla freschezza di un poetare vivo e pulsante. Si è di fronte a un linguaggio iconico, immaginifico, che rende visibili le linee di forza della raccolta più che evocarle musicalmente.
La semplice struttura della silloge permette a prima vista di intuire una continuità di flusso e movimento; la prima sezione è infatti intitolata Da dove veniamo, la seconda Chi, la terza Verso dove. Risulta evidente il legame fra prima e terza sezione, dato dall’indicazione di un luogo (che ha nome Bolgheri) da cui si parte e di un luogo (ignoto) verso cui si procede. «Chiedimi di quei primi anni / a Bolgheri»: si è in un clima di ricordi e di memorie, in un tempo passato che ha i tratti dell’onirico e dell’inquieto. Nella prima sezione ci si imbatte in alcune scorie della memoria della poetessa reintrodotte nel flusso del discorso, scorie che spesso assumono i caratteri del perturbante o del macabro: «le teste mozze di cervi incantati / appese dove si mangia e si beve» oppure «Fra mucillaggine e ramarri / quel poco celato a pelo d’acqua / un cattivo odore di galera».
L’atmosfera cupa del passato si riverbera nell’ultima sezione, che abita un tempo non più passato ma presente. Scene della vita quotidiana vengono caricate di significato, proposte all’attenzione di un “tu” che spesso non comprende o resta distante («hai timore forse / di quello che posso fare da sola») oppure alla profonda intimità di un “io” che tende a confrontarsi con l’Altro. I tratti dell’inquietudine sono declinati proprio nel punto di contatto fra l’io e gli altri in quanto, come un leitmotiv che percorre tutto il libro, l’io esplicita una situazione di incomprensione e malattia. «– Eh, su su! – dicono con la mano / per aria come per minimizzare, / come se solo a cinquant’anni / fosse lecito il pensiero del gran finale».
Il punto massimo di incidenza di questo male si palesa nel confronto/scontro fra giovinezza ed età adulta, confronto in cui la poetessa si riconosce non tanto sconfitta quanto inadeguata. A dispetto di ogni schema sociale, che pretende l’equazione “giovinezza uguale felicità”, si assiste qui ad una forte rivendicazione della propria unicità, dell’appartenenza gelosamente custodita ad un male che rende chi scrive contemporanea a tutte le età perché, sostanzialmente, portata in un altro luogo dove tutte queste coincidono sotto il segno della malattia.
Di verticalità, per ora, si è parlato solo al negativo, individuando nella progressione “da dove-verso dove” una linea orizzontale; linea che, mimando l’andamento della superficie terrestre, tende a suggerire l’idea di pesantezza, di tristitia. Ma la seconda sezione, indicando nel titolo un pronome personale, tende a sovvertire la monotonia di questo andamento per indagare la dimensione profonda della temporalità. Le figure umane, non incomprese né chiuse in un distacco dall’io, si affidano al gesto della reciproca cura, ai gesti familiari della delicatezza e dell’abbraccio: «faccio della pace un lenzuolo / e ti rimbocco la vita». L’umanità risanata dalla cura permette ai personaggi di questo stilizzato palcoscenico di ritrovarsi a distanza, di non affondare nel buio. Le persone si richiamano, creano un collegamento di luce, divengono Lanterne (così è sottotitolata la sezione) che permettono il defilarsi di una costellazione di sentimenti: «in un bene antico e agile /come di vita precedente / teniamo accese le lanterne». Come per la malattia, anche in questo caso la temporalità lineare è come annullata, presupposta ma trasfigurata, fatta affondare in un presente più denso dell’attimo che viene vissuto.
La verticalità che suggerisce Maddalena Lotter in questa sua prima raccolta è dunque da ricercarsi non tanto in una spazialità figurativa quanto in una profondità (a)temporale. Non bisognerà, in altre parole, rintracciare il legame alto-basso in precisi simboli o richiami quanto intuire, nell’intrecciarsi di piano verticale e orizzontale, la densità del mezzo che permette questo legame. L’aria, come la poesia, è invisibile e silenziosa, concede spazio ed aperture ma esiste, permea la rarefazione, si situa in una zona dove, per sua natura, collimano i fatti del mondo per essere sussunti come purificati, resi leggeri. La seconda sottosezione della terza parte del libro è intitolata appunto Verticale e proprio qui si trovano questi versi che aspirano alla purezza aerea :«spero un giorno di somigliare all’aria, / allo spazio tra due cose o a un’idea che nasce» oppure «Saper fare a meno […] diventare distacco […]esercitarsi / all’unità minima del respiro, tenere / l’aria».
La poesia di Maddalena Lotter è da trovare proprio nel suo proporsi come medium fra la disperazione e l’ambizione alla sparizione, che sono forse facce della stessa medaglia e che proprio per questo impongono alla pronuncia la dizione del loro essere al contempo contrapposte e uguali. L’aver compreso questa contraddizione “attiva” rende la poesia a tratti sapienziale, apodittica, ma mai disincarnata. Spesso, abolendo la punteggiatura (specie in situazioni dialogiche), si ha l’impressione di essere parte attiva di un discorso che si sta pronunciando, che sta occupando quella zona infra-temporale dove i fenomeni accadono nella loro realtà. I cipressi allora, figure totemiche della prima sezione, assurgono a simbolo di questa poesia mesta ma sincera, mai disperata, resistono nella loro fisicità «come tendini che legano i corpi al cielo» senza dimenticare le radici, ancorate con tenacia a un suolo che resta, per dirla con Mandel’stam, «una mobile casa della vita».
Michele Bordoni Maddalena Lotter
(www.excursus.org, anno IX, n. 85, agosto 2017) Maddalena Lotter