di MARY PANTANO – Ventuno edizioni pregiano Uno psicologo nei Lager (Ares Edizioni, pp.158, € 15,00), testimonianza storica frutto dell’autentica esperienza di vita di Viktor E. Frankl. Un vero elogio dell’esistenza, elaborato tra gli sguardi tormentati e nudi dei deportati, nel loro disperato urlo di fronte alla morte imminente, anime esili e dannate che camminano senza più uno scopo nel quale riconoscersi, vessate dalle angherie gratuite dei campi di concentramento. A loro, come a se stesso, immerso nella medesima sofferenza pregna di nullità e umiliazioni, l’autore restituisce un’ancora di sopravvivenza, che risiede nel significato profondo della vita, degna invece di essere colmata fino all’estremo della sua apparente negazione.
Nato a Vienna ed esponente della comunità ebraica, Frankl diede subito prova di talento nel suo spiccato orientamento allo studio della natura umana. Dalle sue corrispondenze con Sigmund Freud, al cospetto del quale si definisce un “nano”, emerge la particolare predilezione del maestro per questo giovane liceale, che a soli sedici anni pubblicò un saggio nel Giornale internazionale di psicanalisi.
Tanto amante della natura e delle arrampicate su roccia quanto poliedrico intellettuale, Frankl non abbandonò mai il suo scopo di ricerca nello studiare l’uomo da un punto di vista medico e filosofico, osservandone i comportamenti nelle situazioni più estreme. Vittima della persecuzione nazista, venne fatto prigioniero in piena carriera universitaria. Nel settembre del 1942 fu condotto nel lager di Theresienstadt (Böhmen), una delle «dépendances dei campi di sterminio», lager cosiddetti “minori”, ugualmente agguerriti nel portare a compimento la loro missione genocida.
Separato dai suoi affetti, tra cui la moglie a sua volta prigioniera, il medico deportato si trovò a stringere tra le mani il manoscritto delle sue ricerche scientifiche, nella remota speranza di poter conservare «il lavoro di una vita». Pratico del contesto oppressivo che lo aspetta, un anziano recluso lo esortò a liberarsene, preannunciandogli la fine di ogni libertà individuale, fino alla rinuncia della propria umanità: le regole del lager sono in grado di annientare ogni arbitrio, privando di ogni possedimento materiale e morale i prescelti al “macello”.
«Si sottraeva al prigioniero ogni suo avere»: così ha inizio la storia di un numero, il 119.104, che marchia lo scrittore protagonista come vittima sconosciuta in mezzo a molti, né identità né professione. Un numero seriale privo di ogni umana sfaccettatura: inizialmente l’autore avrebbe voluto utilizzarlo come pseudonimo, poi ha fatto appello al coraggio della sua confessione onorandola col proprio nome.
Lo stile dello psicologo è scorrevole e diretto, le descrizioni scientifiche, riferite alle condizioni mentali dei detenuti nell’attraversare le varie fasi della loro prigionia, si alternano ai drammatici particolari di una lenta quotidianità che li consuma. Gli internati osservati da Frankl, con raffinata umanità e competenza clinica al tempo stesso, sono i suoi compagni di destino, trasfigurati dall’estenuante lotta per l’esistenza.
Dallo «choc dell’accettazione» sotto lo sguardo esaminatore del Kapo che decreta la sorte di ogni nuovo arrivato con un impercettibile cenno (a destra o a sinistra: idonei ai lavori forzati o al forno crematorio), fino al «delirio di grazia», l’apparente aspettativa di un miracolo che li salverà, l’autore spiega fino a che punto l’uomo è in grado di far fronte all’inaffrontabile. A guidare il racconto sono le azioni e i pensieri messi sotto una lente d’ingrandimento, uomini pronti al suicidio, rassegnati o paradossali, come chi tenta di esorcizzare la propria disperazione attraverso discorsi dal sapore salvifico. Taluni rievocano il proprio passato, altri, in assenza di cibo, godono nell’assaporare con l’immaginazione pietanze inaccessibili e tanto desiderate, sfatando la dimensione presente con una macabra ironia incredula e disperata.
Come una sorta di manifesto filosofico, lo scorrere veloce delle pagine conduce verso insolite profondità di pensiero, dove la sofferenza umana, viscerale e tangibile, riesce per l’autore a diventare foriera di un più intimo senso di libertà. «Dal modo in cui un uomo accetta il suo ineluttabile destino sorgono infinite possibilità di attribuire un significato alla vita, anche nei momenti più difficili, fino all’ultimo atto di esistenza», giacché sempre l’uomo può essere, nel suo intimo, più forte del destino che gli viene imposto. È proprio calandosi in quelle estreme condizioni di vita, infatti, che il medico viennese vede confermate le sue tesi sul destino e sulla libertà dell’uomo: un lavoro di ricerca che costituirà l’ossatura del nuovo approccio psicoterapeutico di cui Frankl è fondatore, la logopedia.
«Chi ha un perché per vivere, può sopportare quasi ogni come» ribadisce lo studioso alla ricerca di significati di fronte all’assenza di futuro. Non è dunque interrogandosi su «che cosa aspettarsi più dalla vita» che l’uomo può nutrire il suo senso esistenziale, ma è l’esatta valutazione contraria a fare la differenza, domandandosi «cosa la vita si aspetta da noi».
E fino alla fine, alla reale liberazione, è con indomabile lucidità che il detenuto, estenuato dalla fame e dalle violenze subite, è ancora in grado di combattere l’egoismo della sua sofferenza individuale. Con le forze che gli rimangono parlerà con coraggio ai compagni per rinfrancarli dalle inevitabili afflizioni, dove gli antidoti ancora sublimi dell’amore e della fede saranno l’unica garanzia di salvezza.
Mary Pantano
(www.excursus.org, anno VII, n. 68, marzo 2015)