di MICHELE BORDONI – C’è una tragicità nel destino, l’angoscia di sapersi scritti prima del gesto compiuto, privati della forza di modificare la propria condizione. È inscritto nelle forme e nei profili, nelle linee del volto che ricordano gli avi, una provenienza da uno stesso grembo che è la terra-madre a cui tutti, bene o male, dobbiamo tornare. Destino grave della pesantezza che, in senso fisico, è la forza di attrazione esercitata dalla terra. Pesantezza senza grazia, pesantezza tragica del già vissuto, del silenzio inindagabile di una terra che è riassorbimento di tutto nel Tutto e che per troppa densità si avvicina ad un Niente. Essa fa paura se vista dall’angolazione della tomba. E la parola poetica sempre, costitutivamente, cerca di interrogarsi su questo destino tragico dell’uomo, tentando quantomeno di salvare il suo essere parola viva dalla fredda evidenza di legge. Emanuele Franceschetti
Poeti come Mallarmé hanno accettato l’opprimente richiamo della terra, il suo irresistibile fascino mortuario. I versi del poeta di Valvins, fin dal tentativo di Erodiade di chiudersi in una mandorla dell’essere che serrasse le porte all’esistente, è stata un accelerare la caduta verso la tomba, un affidarsi alla gravità e al silenzio. Basti pensare a Igitur, la catastrofe dell’ultimo discendente della sua stirpe che, accettando di stendersi nel sarcofago degli avi, di bere la fiala contenente il Nulla e di scomparire completamente, offre alla poesia il compito di farsi formula e simbolo, Livre contenente le leggi del cosmo e della vita. Il caso e la carne non vengono più racchiuse come sono nella parola poetica, nel vuoto della terra fatta tomba, madre che riapre il grembo e ricuce lo strappo dell’esistenza. Emanuele Franceschetti
C’è chi invece si ribella a questo destino, sovverte la gravità e la gravezza di questa parola marmorea che tanto ricorda il loculo. C’è chi sente con passione tenace e dolorosa la sua creaturalità, l’ek– di un ek–sistenza che ha il sapore della lontananza dal fondamento e che, al contempo, evoca il bisogno di dare un suono a questa distanza, aggrappandosi ad essa come fosse l’unica realtà possibile. Emanuele Franceschetti, con il suo Terre aperte (Introduzione di Filippo Davoli, Italic, pp. 80, € 12,00) appartiene con eloquenza a questa categoria di poeti “esistenziali” rivelando, già dal titolo, la compromissione fra chiusura della terra nel giro stretto del suo silenzio ed apertura d’aria. Poesia come respiro e, dunque, come vita. In questo libro, il secondo del giovane autore marchigiano, si rafforza quel movimento di moto da luogo caratteristico anche del suo primo lavoro Dal labirinto; la dialettica inesausta tra la pesantezza e (richiamando la Weil) la grazia dell’aprirsi di una feritoia continua a creare tensione, a permettere un movimento evitando la stasi. Dall’autore alla vita e, con un moto contrario ed uniforme, dalla vita alle parole che si impregnano di essa. Non ci sono parole definitive. Nulla a che vedere con il silenzio statuario di Mallarmé.
Il libro si svolge in forma di domanda, di richiesta di contatto. Diviso in due sezioni sembra richiamare l’urgenza di una stretta, la fretta e la febbre di una vicinanza. La prima sezione si intitola non a caso Vocativo ed è il tentativo di chiamare a sé, da lontano, la singolarità degli individui e dei momenti cari al poeta. Vige sopra tutto l’esigenza dell’unicità di ogni istante e, di conseguenza, la cura e la tenerezza verso ogni singolo dettaglio: «è muta la parola del cemento, / ogni creatura chiede un’attenzione nuova». Una fragile essenza permea lo spazio di questa divisione di cui fanno garbatamente parte le figure a cui le poesie sono dedicate i destinatari dei frammenti. La parola Sperimenta il compito di essere ponte verso un possibile ricongiungimento con ciò che non c’è più e che dunque appare vano: «Uno sfinirsi di spazi, di quelli / che non hanno il male dell’impotenza».
Terre aperte si intitola invece la seconda sezione del libro, approfondendo quella dialettica tra esplorazione della superficie al di là del confine e contemporaneamente la dimensione rizomatica, filamentosa della profondità. Sezione alta, alla latina. L’apertura della terra appare creata dalla ferita di una parola che spiazza creando disorientamento e dolore ma, essendo condizione necessaria alla dizione, attrae l’orecchio all’ascolto del silenzio tellurico: «Sono la radice profanata dal vento che incide la zolla / e rivela la forma del profondo». Attratta dalla terra, rientrata nel grembo della madre, la poesia rinnova la terra stessa, le concede una voce possibile: «La mia terra […] / gode quindi la grazia di un’apertura, / quasi cercasse il rischio di una prossimità speranzosa». Al contrario della spettrale parola mallarmeana, posta a conclusione di tutto, la poesia di Emanuele Franceschetti non concede la falsa speranza di una risposta a ciò che una risposta non contempla (la verità, la vita), ma si pone come possibilità di riconoscersi laicamente fratelli, figli della stessa pesantezza che la poesia rivaluta nella sua concretezza, nella sua gestualità.
Terre aperte è infatti un libro tutto materico, arroccato al corpo e alla carne del vissuto reso con estrema esattezza. Il bellissimo endecasillabo che detta il ritmo dell’opera di Franceschetti entra come una luce nel silenzio e scolpisce i tratti marcati degli oggetti, degli incontri, dando corpo, non solo colore, alle parole: «Lì la tua pronuncia inconfondibile / mi si offriva spoglia, e in filigrana / ci scoprivamo interamente, nudi / perché la verità non è altrimenti», «lo sgradito e maledetto puntiglio / della colpevolezza della materia», e infine «Vorrei però che rimanesse esatta / la pesantezza dei corpi consumati / nella febbre di ritrovarsi al mondo». Il verso fermo che scolpisce e rende asciutto il mondo si interroga sul suo profilo, sulla sua libertà: «Cos’è davvero mio solamente / se forse ho la tua cadenza / e certo hai il mio profilo?». Si chiede, insomma, se ci sia dell’altro oltre la somiglianza delle forme, se si possa andare oltre, e perciò variare liberamente, le correspondances fra la madre-terra e i suoi figli. A questo rischio Franceschetti risponde così: «Ma ho conosciuto la libertà / delle variazioni, l’aria he improvvisa / spalanca l’ultima feritoia, il linguaggio / della pietra. E la pietra mi parve guarigione, / respiro della forma».
Dove più stretto è il tessuto del corpo, più forte emerge uno spiraglio: «stretta come un’intessitura sapiente / e poi libera d’un tratto nel tradimento / del gesto». Laddove si potrebbe vedere una chiusura ermetica data dal limite della materia, la parola non si ferma e va oltre, nel profondo, creando un moto di rivalsa che salva dalla stasi. Ritorna alla terra, questa parola, ma come un figlio disubbidiente, sufficientemente saggio per riconoscere, nella somiglianza con la madre, la liberazione della differenza: «Ricordami però quant’è felice / la lingua che ritorna alla sua terra / per poi tradirsi sempre alla radice». In questo atto, pacatamente eroico, la poesia ritrova la sua carica di esperienza; non diventa perciò formula, rappresentazione di altro, ma permette di dire «uomini lontani» rimasti senza voce e che continuano, nella memoria, a reclamare un canto.
D’altronde «Se la parola è nuda, luminosa / sa spingersi oltre il chiuso della storia / e aprirsi sul suo gorgo, riaffacciarsi» ad un’esistenza comune, di tutti. La parola può farsi essa stessa terra aperta, madre («C’è, in ogni memoria, una donna. L’universo / ristretto nella carne, la maternità del mondo») che accoglie gli uomini e la storia senza tradirli o ammutolirli, perché «I canti […] non tradiscono la materia». Se Paul Celan non vedeva alcuna differenza fra una stretta di mano e una poesia, Emanuele Franceschetti e le sue terre aperte ci donano, più che un libro di versi, un gesto fraterno, «una fragilità detta piano, una curiosità tenace. / Saperci meno soli», e ci lasciano con la loro pesantezza che è grazia dell’istante, abbraccio.
Michele Bordoni Emanuele Franceschetti
(www.excursus.org, anno X, n. 88, marzo-aprile 2018) Emanuele Franceschetti