di ANNA LISA BUZZOLA – Il personaggio più famoso fra quelli creati dallo scrittore Diego De Silva (Napoli, 1964) è sicuramente l’avvocato Vincenzo Malinconico che compare in tre romanzi di successo, tutti pubblicati da Einaudi: Non avevo capito niente (2007), Mia suocera beve (2010), Sono contrario alle emozioni (2011); titoli raccolti poi in un unico volume intitolato Arrangiati, Malinconico nel 2013.
Nello stesso anno, nonostante il rischio di deludere i propri lettori ormai affezionati a quello strano filosofo logorroicamente bipolare, De Silva pubblica un romanzo, Mancarsi, nel quale si dedica a due nuovi personaggi, Nicola e Irene, per raccontare una storia d’amore non ancora nata.
Dopodiché, nel suo ultimo libro, Terapia di coppia per amanti (Einaudi, 2015, pp. 278, € 18,00), Diego De Silva presenta altri due nuovi protagonisti, Modesto e Viviana, facendo ormai disperare sulla possibilità di un ritorno del suo fascinoso avvocato. Ma lo scambio varrà la pena, come si vedrà.
Gli amanti in terapia
Non si svela certo un segreto dicendo che questo romanzo parla di una coppia di amanti che va in analisi – lo annuncia già il titolo del libro. Sì, certo, proprio quell’attività volta solitamente a «salvare il matrimonio, a prevenire il divorzio, la divisione dei beni, l’affidamento dei bambini, l’assegnazione delle case […] fatta per le coppie ufficiali, quelle che hanno una vita in comune, figli comuni, interessi comuni» (p. 125).
Modesto e Viviana, entrambi sposati, entrambi genitori di un figlio, sono amanti da più di tre anni, ma ora cominciano ad avere qualche problema. L’attrazione fisica è ancora forte, ma i continui litigi mettono a rischio la sopravvivenza della loro relazione.
È soprattutto Viviana a mostrare improvvisamente una violenta insofferenza per alcuni atteggiamenti di Modesto: una certa superficialità, la costante evasività. Modesto è spiazzato, non sa come rispondere agli attacchi immotivati di una donna che ama esattamente come prima. Ma Viviana in realtà ha chiaro che cosa sta succedendo loro: «Modesto e io non siamo più dei semplici amanti che s’incontrano ogni tanto per trovare un po’ di consolazione dal grigiore dei loro rispettivi matrimoni. Che ci piaccia o no, abbiamo varcato un confine, e non possiamo più fare gli struzzi. Dobbiamo decidere cosa essere, e dobbiamo farlo prima che la situazione esploda» (p. 144). Ed è Viviana infatti a prendere l’iniziativa e a proporre una terapia psicologica di coppia che Modesto rifiuta sdegnato finché può.
Se questa velocissima ricostruzione dell’asse portante del romanzo ha evocato scenari alla Bergman, lunghi e tormentati dialoghi intervallati da pesanti silenzi e sprofondati in atmosfere cupe e opprimenti, la lettura del libro sorprenderà. Ecco, ad esempio, una delle poco pacate riflessioni di Modesto dopo che Viviana, in preda all’angoscia, lo ha chiamato al telefono in piena notte facendogli rischiare un divorzio per direttissima: «Ma io non lo so; ma porca di una troia lurida schifosa e incrostata, ma sei deficiente a chiamarmi a casa, e alle quattro di mattina, per di più? Quale cortocircuito neuronale non classificato deve averti dissestato il sistema nervoso per farti partorire un gesto così insulso e privo di logica?» (p. 48). E la propensione di Modesto per il turpiloquio non necessita di sottolineature, si mette in evidenza da sé. Peraltro, nel brano citato Modesto non stava parlando con Viviana: stava semplicemente riflettendo fra sé.
Anche Viviana, donna intelligentissima e determinata, orgogliosa della propria «aggressività calibrata e lucida» (p. 161), è diretta ed efficace nell’analizzare le proprie sensazioni. Quando Modesto (di professione musicista) la porta a far l’amore nella sua sala prove, pensa: «Così, quando ci ritroviamo in quella stanza piena di cavi e di strumenti che odora di sudore vecchio e di moquette, e Mode chiude la porta a chiave e poi mi assale, e già mi vuole e non resiste, io mi scopro a pensare che in quel momento, in quella piccola sala umida, sono felice più di quanto potrei mai essere in qualsiasi altro posto. Perché è questo che fa quest’uomo con me, mi rende felice ovunque, con niente» (p. 87).
Insomma, dicevamo, una terapia psicologica di coppia che Modesto rifiuta sdegnato finché può, costretto infine a cedere dal ricatto affettivo, metterà in atto strategie sorprendenti per risolvere a suo modo la situazione. Ma non si scherza con la propria donna, tanto meno con i sentimenti. E non si può avere il controllo di tutto quel che si mette in moto con le proprie azioni.
Storie d’amore a due voci
Come il noto E non disse nemmeno una parola (1953) di Heinrich Böll e come il ben più recente Mancarsi dello stesso Diego De Silva, anche quest’ultimo romanzo racconta una storia d’amore dedicando ai due protagonisti un capitolo a testa. La voce narrante infatti si sdoppia: abbiamo due narratori interni, Modesto e Viviana, che presentano a turno il proprio punto di vista in prima persona, raccontando la propria versione dei fatti, cioè del conflitto in cui si trovano. Curioso poi che anche all’analista, il dottor Malavolta, siano riservati tre capitoli da protagonista e io narrante, il primo dei quali compare addirittura prima dell’inizio della terapia. Tre capitoli che non sono per niente male, soprattutto quando Malavolta accusa Modesto, molto a proposito, di “incontinenza ironica” (p. 127).
Se il rischio cui si esponeva Diego De Silva nell’inventare il musicista Modesto Fracasso era quello di farne un parente troppo stretto di Vincenzo Malinconico, la prova poteva essere ancora più ardua nel cercare di riferire i pensieri di una donna, Viviana. Diego De Silva infatti, per descrivere un rapporto di coppia in crisi, si pone su entrambi i versanti del conflitto, sapendo di trovarsi così nel luogo deputato al confronto più duro – e doloroso – tra sensibilità maschile e femminile. Ma De Silva si muove sicuro, l’esperienza maturata con la protagonista di Mancarsi, Irene, dà i suoi frutti: l’analisi della psicologia femminile risultava infatti ben fondata già allora, quando la narrazione in terza persona non impediva la riproduzione fedele di un pensiero che somiglia molto al monologo interiore di Viviana.
Non proprio sullo sfondo
«C’è chi ha un lato oscuro, tu ce l’hai cretino» (p. 189): è il padre di Modesto ad apostrofarlo in questo modo, come se, registrandolo all’anagrafe come Modesto Fracasso all’insaputa della moglie, non lo avesse già maltrattato abbastanza fin dal momento della nascita. Ma Modesto in verità l’adora e il suo anticonformista genitore forse se lo merita se, fra le altre perle di saggezza, riesce a rifilare a suo figlio anche la seguente: «Mi sembri tua madre. Voi due volete sentirvi adeguati, non felici. Prima di fare una cosa state a preoccuparvi di come vi vede la gente. […] Ma siete proprio convinti, tu e mammeta, che gli altri vi riservino tutta quest’attenzione?» (pp. 190-191).
È interessante peraltro la triade della solidarietà maschile intergenerazionale – Modesto, suo padre Ferdinando e suo figlio Eric – che, nonostante siano soliti coprirsi reciprocamente di insulti, fanno poi di tutto per aiutarsi a vicenda.
Lo stile di Diego De Silva
Insomma – si diceva – che in questo libro si parli di psicoterapia non è una rivelazione. Lo scoop sta semmai nel fatto che la prima seduta di Viviana e Modesto dallo psicanalista avviene solo a pagina 159: De Silva è un mago nell’arte della digressione. Fra le sue caratteristiche c’è un disinvolto divagare, abbandonando la trama principale e perdendosi in racconti secondari o riflessioni su modi di dire o di pensare, brani musicali, abitudini e idiosincrasie. Verrebbe da dire che De Silva potrebbe essere la versione partenopea, pirotecnica e un po’ gradassa della riflessività introspettivo-filosofica di Javier Marías, il romanziere spagnolo, con in più l’essere assolutamente divertente.
Ma il tratto principale dello stile di Diego De Silva è il linguaggio: i suoi protagonisti si esprimono sempre con un mix di parlato (a tratti anche dialettale) ed erudizione, di filosofia e turpiloquio, umorismo e aggressività. Il loro modo di raccontarsi è al contempo esuberante e raffinato, stupefacente per come mescola autoanalisi e scoppi di irrazionalità, per come riesce ad essere convincente nonostante i toni esagitati.
Per concludere, le vicende raccontate sfiorano la deformazione surreale, a causa di un’osservazione ravvicinatissima e quasi al rallentatore dei pensieri e delle azioni dei personaggi. Ma pur nell’eccesso espressionistico dei dialoghi e soprattutto dei monologhi interiori dei personaggi, l’analisi delle relazioni e delle situazioni è assolutamente sensata, a volte illuminante.
Travestite da battute di spirito ironico-sadiche o masochistiche, De Silva mostra delle incontestabili verità, ma soprattutto, ribadiamo, è divertente. Persino i titoli dei capitoli sono sconcertanti (Si storcono sempre un po’ gli occhi, quando si beve dalla cannuccia, ad esempio). E si ride, non c’è niente da fare.
Così lo scherzo e la riflessione filosofeggiante procedono a braccetto, sorreggendosi a vicenda, con ottimi risultati.
Anna Lisa Buzzola Diego De Silva
(www.excursus.org, anno IX, n. 86, settembre-ottobre 2017) Diego De Silva