di GIUSEPPE LICANDRO – Il referendum che ha sancito l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea ha ulteriormente evidenziato le difficoltà nelle quali è invischiata da un decennio l’Europa, sconvolta dalla crisi economica, dall’aumento dei flussi migratori e dal risorgere dei nazionalismi.
La speranza di chi – come Ernesto Rossi e Altiero Spinelli – auspicava la fondazione degli Stati Uniti d’Europa si è infranta contro i gretti interessi del mondo della finanza, il quale – con la complicità di una classe dirigente subalterna – ha imposto ai popoli della Ue un’estenuante politica di austerità, che ha distrutto le fondamenta del Welfare State e ha accresciuto la povertà, mettendo in discussione anche le regole della democrazia.
Le ragioni storiche che hanno determinato il sostanziale fallimento del progetto comunitario europeo sono state attentamente analizzate da Agostino Carrino – professore ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università di Napoli – che ha recentemente pubblicato il saggio Il suicidio dell’Europa. Sovranità, Stati nazionali e “grandi spazi” (Mucchi Editore, pp. 150, € 17,00).
Nell’Introduzione, l’autore spiega che il libro s’impernia sulla convinzione che «l’Europa può evitare una decadenza progressiva e una fine inevitabile a condizione che la politica riprenda e rivendichi i suoi privilegi», ricostruendo «un potere politico meno fragile e più attento agli interessi concreti delle nazioni».
L’esigenza di una riforma radicale
Nella prima parte del saggio, Carrino – aderendo ai presupposti teorici del realismo giuridico – critica il cosmopolitismo sostenuto in passato da studiosi come Ulrich Beck e Jürgen Habermas, che si sono limitati a «immaginare un mondo di “cittadini” senza patria, una cosmopoli liquida», senza tener conto della realtà effettiva della globalizzazione, nella quale è predominante il potere finanziario, mentre l’organismo che dovrebbe governare la politica internazionale – l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite – dimostra la propria impotenza «in quasi tutte le crisi belliche e umanitarie sparse per il mondo».
Si tratta, pertanto, di progettare una nuova ingegneria politica, che consenta all’Europa di recuperare le proprie basi identitarie, costituite secondo l’autore dalla fusione di principi eterogenei, che si sono amalgamati e distinti dal resto del mondo (soprattutto dall’Islam, ma anche da altre civiltà, come quella americana o cinese): il cristianesimo, il pluralismo etico-religioso, l’umanesimo rinascimentale, il razionalismo scettico.
Occorre avviare, dunque, «una riforma radicale dell’Europa» che recuperi il progetto originario della Cee, cioè «la vecchia Europa a sei allargata alla Spagna, al Portogallo, alla Grecia, all’Austria». In seguito, sarà indispensabile che «venga ridata sovranità agli Stati nazionali», i quali poi la devolveranno a «un organismo sovranazionale non burocratico o tecno-finanziario» che sia in grado di «esercitare la sovranità e non di dissolverla», evitando di reiterare gli errori del passato.
Carrino auspica, inoltre, una radicale trasformazione della struttura geopolitica del continente europeo che consenta la formazione di tre “grandi spazi” multinazionali «confederati economicamente in equilibrio pacifico e amichevole». Si tratta di tre aree geografiche che, pressapoco, corrispondono all’Europa occidentale, centrale e orientale: «uno che arrivi a Vienna, l’altro che unisca Polonia, Ucraina (forse), Cechia, Slovacchia, Ungheria (forse), gli Stati baltici, il terzo sotto l’egemonia (…) russa».
Il progetto, tuttavia, non sembra ancora praticabile, a causa dell’opposizione degli Usa e soprattutto della Germania, che nell’odierna Ue riveste un ruolo egemone, poiché «si è autonomamente posta, unica e sola, come contro-limite rispetto al primato del diritto giudiziario europeo», influenzando direttamente molte normative comunitarie.
L’egemonia della Germania
Nel 2004 fu firmato a Roma il Trattato Costituzionale, che però fu bocciato nel 2005 da due referendum, prima in Francia e poi in Olanda. Due anni dopo, si procedette alla redazione del Trattato di Lisbona, evitando però di stilare un unico testo costituzionale e limitandosi a riformulare il Trattato di Roma (1957) e quello di Maastricht (1992).
Il Trattato di Lisbona è entrato in vigore nel 2009 e, pur non rappresentando una vera costituzione federale, ha introdotto alcune importanti novità: l’attribuzione di maggiori poteri ai Parlamenti nazionali nell’esame di regolamenti e direttive; il metodo della “doppia maggioranza”, in base al quale risoluzioni e leggi saranno approvate solo se ci sarà un voto favorevole pari al 55% degli Stati membri (in alcuni casi il 72%) e al 65% della popolazione europea; la creazione dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza; la possibilità per ogni stato membro di uscire dall’Ue.
Secondo Carrino, le riforme approvate a Lisbona hanno sancito, sia pur implicitamente, il «ritorno degli Stati nel processo di integrazione», soprattutto grazie all’art. 5, concernente le competenze comunitarie, dove – accanto ai principi di sussidiarietà e proporzione – si è introdotto quello di attribuzione, secondo il quale «l’Ue ha competenze solo nelle materie che gli stati membri hanno deciso di attribuirgli».
L’evoluzione verso una maggiore integrazione politica tra gli stati membri è resa più problematica dalle decisioni della Corte Costituzionale Tedesca, in particolare da una sentenza del 30 giugno 2009, nota come Lissabon-Urteil, che costituisce «il fondamento di legittimazione del primato tedesco in Europa», avendo definito il legame tra la Germania e gli altri stati in termini di Verbund, cioè «unione in cui i componenti mantengono la loro specifica individualità e […] non confondono le rispettive basi di legittimazione».
Ciò significa che, pur essendoci una stretta relazione tra i membri dell’Ue, «la sovranità […] resta nella titolarità e nell’esercizio […] di quegli Stati che non intendono privarsene». Per i tedeschi, dunque, la comunità europea non potrà mai trasformarsi in un vero organismo federale, ma è destinata a rimanere «un compromesso tra soggetti politici indipendenti», ossia «un’associazione di Stati avente competenze predeterminate e limitate». Pertanto, il diritto europeo può avere preminenza su quello teutonico soltanto finché «coincide e corrisponde con gli interessi del popolo tedesco».
In seguito alla sentenza del 2009, Ue è diventata, di fatto, «un soggetto controllato indirettamente dagli organi costituzionali della Repubblica Federale Tedesca»: gli altri Stati comunitari – a eccezione di Gran Bretagna, Polonia e Ungheria – hanno finito per conferire «maggiori quote di sovranità all’Unione europea», sottoponendosi di fatto all’egemonia economico-giuridica tedesca.
Poiché la linea economica degli ultimi governi della Germania – retti da Angela Merkel con l’ausilio di Wolfgang Schäuble, Ministro delle Finanze – si muove nella direzione univoca «dell’equilibrio di bilancio e della cosiddetta austerità», ecco inevitabilmente che questa politica di rigore «viene di fatto imposta a tutti gli altri paesi dell’eurozona».
Una nuova idea di Europa
Carrino è convinto che, nella costruzione dell’Europa comunitaria, si siano scontrate due istanze contrapposte, «una politica, l’altra giuridicista». Il “peccato originale” che ha condizionato l’Ue è consistito, in particolare, nell’aver rinunciato alla prima istanza, cioè «nel rifiuto della politica in favore […] di una soluzione tecnocratica del programma di “unificazione” dell’Europa».
Si è affermata, invece, la tendenza a far prevalere i valori giuridici nei rapporti tra le nazioni (il cosiddetto “pangiuridicismo”), che però alla lunga ha comportato la decadenza dell’Ue. La comunità europea, infatti, è stata concepita dai neo-costituzionalisti liberal-democratici come un organismo amorfo, senza guida politica e ammantato dalla retorica «dei diritti, dei mercati, delle corti», che ha deluso i popoli del continente europeo, i quali non sentono l’appartenenza a una “patria comune”.
Si tratta, pertanto, di «rovesciare il rapporto tra politica e tecnica, insieme a quello tra politica e diritto», modificando anche l’economia comunitaria, finora appiattita sulle regole del neoliberismo più rigido. La scelta di introdurre la moneta unica si è rivelata infausta, perché ha creato una dicotomia tra la politica economica della Banca Centrale Europea, finalizzata al controllo dell’inflazione, e quelle dei singoli stati, votate invece alla crescita produttiva: ciò ha innescato «una vera e propria bomba a orologeria […] che prima o poi dovrà necessariamente esplodere, se non disinnescata prima».
Occorre, pertanto, che gli stati dell’Ue procedano alla riedificazione dell’Europa, superando l’astratto cosmopolitismo e creando le condizioni per la nascita di uno “spazio politico europeo” che comprenda le tre aree geopolitiche sopra indicate e punti all’affermazione di «una cultura europea che sia al tempo stesso unitaria e plurale».
Alla base della crisi dell’Ue c’è la mancanza di legittimazione democratica: essa è percepita dalla gente comune come «un potere alieno, estraneo» che, imponendo dall’alto misure restrittive come il “Fondo salva Stati” e il Fiscal Compact, ha di fatto indotto «un processo di espropriazione della politica». Ciò che è urgente, dunque, è soprattutto «il ritorno della virtù politica», nell’accezione fornita da Montesquieu: «quella che chiamo virtù nella repubblica è l’amore per la patria, ovvero l’amore per l’uguaglianza».
Carrino, in chiusura del saggio, ribadisce che sono tre le priorità politiche da perseguire, se si vuole scongiurare la decadenza dell’Ue: «innanzi tutto, il superamento dell’Europa come mercato indifferenziato; in secondo luogo, la costruzione di spazi politici; in terzo luogo, una pluralità di spazi politici omogenei».
Giuseppe Licandro
(www.excursus.org, anno IX, n. 80, febbraio 2017)