di LUIGI GRISOLIA – L’araldica è una disciplina documentaristica antica – risale perlomeno al Medioevo – e molto importante negli studi storici ma, nonostante ciò, oggi poco conosciuta. Il lavoro di Marco Grassi, dottorando in Storia dell’Europa Mediterranea, dal titolo Stemmi araldici dalle collezioni del Museo Regionale di Messina (Prefazioni di Caterina Di Giacomo e Franz Riccobono, Edas, pp. 156, f. 21×21, € 15,00) ha dunque un duplice merito.
Da una parte, offre una prima catalogazione di stemmi provenienti da palazzi e chiese distrutte dal terremoto che nel 1908 devastò la Città dello Stretto, dall’altra mostra per l’ennesima volta come gli studi araldici permettano di ricostruire la storia di una città – nel caso specifico, dal XVI al XIX secolo – e di riportare alla luce fatti e personaggi rilevanti ma poco noti o dimenticati.
Sfogliando le pagine del libro di Marco Grassi, frutto di un’indagine attenta e certosina, possiamo così imbatterci in Pietro Isvalies, cardinale messinese e grande esponente della Chiesa di Roma a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento che, tra i vari incarichi e privilegi, ebbe quelli di Arciprete della Basilica di Santa Maria Maggiore e Amministratore Apostolico a Messina e di accompagnare il Papa in persona nell’assedio di Mirandola del 1511. Lo stemma, datato 1508 e proveniente dal Monastero di Montevergine, presenta una corona di spine con al centro un fiore, tre caprioli araldici nella parte inferiore e si staglia su uno scudo angolare, a testa di cavallo con in cima un galero, tipico cappello prelatizio, oltre alla croce, alla data e all’iscrizione dedicatoria.
Oppure in Tommaso Moncada, arcivescovo di Messina dal 1743 al 1762 nonché patriarca di Gerusalemme. Esponente di una delle famiglie più importanti della nobiltà siciliana, Marco Grassi evidenzia che «ripropose come suo stemma vescovile il proprio emblema di famiglia. Lo stemma presenta l’arma inquartata nel primo e nel quarto di nero con un leone coronato d’oro, nel secondo e nel terzo fusato in banda d’argento e d’azzurro, sopra il tutto partito nel primo di rosso con sei pani e due mezzi d’oro e nel secondo di rosso con quattro pali d’oro, il tutto coronato d’oro, infine il consueto galero con rispettivi fiocchi arcivescovili con croce metropolitana». È interessante notare come le insegne araldiche di Moncada siano presenti in numerosi paramenti sacri custoditi in alcune chiese della Città Peloritana.
Ma sono davvero tanti i personaggi storici di cui possiamo fare conoscenza grazie ai loro stemmi. Tra gli altri, ricordiamo: Vincenzo Di Giovanni, la cui figlia, suor Laura del Cuor di Gesù, donò la cospicua eredità paterna per la ricostruzione della Chiesa di Santa Teresa d’Avila, distrutta nel 1718 durante l’assedio della Real Cittadella; Enrico Henrquez, zio di Ferdinando il Cattolico; Gaetano De Castillo, vicario dell’arcivescovo di Messina e vescovo di Lipari nella seconda metà del Seicento; Andrea Mastrillo, arcivescovo, che nel 1619 fece costruire la Chiesa di Santa Maria La Nuova, nel Borgo San Leone, sul luogo esatto in cui un’immagine della Madonna, posta in un’edicola votiva, aveva pianto; Michele Maria Paternò Bonajuto, Gran Priore di Sicilia del Sovrano Militare Ordine di San Giovanni Gerosolimitano di Malta, che «a seguito del terremoto del 1783, restaurò interamente la grande chiesa di San Giovanni, come ancora oggi testimonia questo grande stemma marmoreo che era posto sulla facciata o i vari altari che portano le insegne del Gran Priore presenti nell’attuale piccola chiesa o negli altari rimontati nella chiesa di Sant’Orsola e nella chiesa di Montepiselli, per non parlare del pulpito oggi conservato nella chiesa di Santa Caterina».
Non mancano naturalmente gli stemmi delle case regnanti (Asburgo di Spagna, Savoia, Borbone di Sicilia, Borbone di Napoli), degli ordini religiosi (Padri Predicatori e Frati Minori) nonché di alcune famiglie nobiliari come Campolo, La Rocca, Balsamo, Sollima, Patti, Spadafora, Grassi. Di particolare interesse, vista la loro rarità, anche due stemmi della Santa Inquisizione, aventi «al centro una croce con ai lati un ramo di ulivo ed una spada, rispettivamente simboli di misericordia e giustizia. L’ulivo a destra significa che la misericordia precede la giustizia. Solitamente completava lo stemma il versetto del Salmo 75 con cui si apriva la bolla di scomunica verso Lutero: “exurge Domine et judica causam tua” (Sorgi, Dio, difendi la tua causa). Sul tutto una corona e, accollata alo scudo, l’antica croce gigliata dell’Ordine Domenicano, in quanto la Santa Inquisizione era strettamente legata all’Ordine fondato da San Domenico de Guzman».
Ovviamente sono presenti anche diversi stemmi civici – Marco Grassi ne cataloga una dozzina – caratterizzati dal classico scudo araldico avente una croce d’oro in campo rosso. Secondo la tradizione, come ricorda puntualmente Grassi, tale stemma risale al 407, quando l’Imperatore d’Oriente Arcadio, scacciato da Costantinopoli, si trovò assediato dai Bulgari a Tessalonica. L’imperatore inviò richieste d’aiuto e Messina, fiorente città marinara del Mediterraneo, risposte inviando quindici navi al comando del generale Metrodoro, che liberarono Arcadio e riconquistarono Costantinopoli. Per riconoscenza, l’imperatore donò ai messinesi lo stesso vessillo recante lo stemma imperiale, decretò che sulla mura della Basilica di Santa Sofia fosse incisa la frase “Gran Mirci a Messina” e diede alla città diversi privilegi. Si tratta, però, di leggenda, che non ha riscontri storici, in quanto durante il regno di Arcadio non ci fu un assedio a Tessalonica né una conquista di Costantinopoli. «Unico legame – sottolinea l’autore – con l’Impero d’Oriente risulta, ne vasto patrimonio araldico della Città di Messina, l’antica insegna della marineria messinese, consistente in un’aquila bicipite nera in campo bianco».
In conclusione, Marco Grassi ci offre un viaggio stimolante e ricco di illustrazioni attraverso la storia di Messina, mediante una “prospettiva” diversa ed efficace, ennesima testimonianza della ricchezza del patrimonio artistico e storico della Città Peloritana: se si sa ascoltare, le pietre “parlano”.
Luigi Grisolia
(www.excursus.org, anno VII, n. 66, gennaio 2015)