«Lo so che giunti al termine di questa nostra vita tutti noi ci ritroviamo a ricordare i bei momenti e dimenticare quelli meno belli, e ci ritroviamo a pensare al futuro cominciamo a preoccuparci e pensare “io che cosa farò, chissà dove sarò, da qui a dieci anni”. Però io vi dico, ecco guardate me, vi prego, non preoccupatevi tanto, perché a nessuno di noi è dato soggiornare tanto su questa terra. La vita ci sfugge via e se per caso sarete depressi, alzate lo sguardo al cielo d’estate con le stelle sparpagliate nella notte vellutata, quando una stella cadente sfreccerà nell’oscurità della notte col suo bagliore esprimete un desiderio e pensate a me. Fate che la vostra vita sia spettacolare» (Robin Williams nei panni di Jack Charles Powell nel film Jack di Francis Ford Coppola).
Questa battuta dallo scorso agosto l’abbiamo letta molte volte. Più la leggo, più mi rendo conto che ha il retrogusto amaro di un presagio. Mi hanno chiesto di scrivere un omaggio a Robin Williams, e lo ammetto, sono una fan. Probabilmente il mio è un percorso inverso, di solito i grandi attori si amano per i loro capolavori ma per me Robin Williams (nato a Chicago il 21 luglio 1951 e morto suicida a Tiburon l’11 agosto 2014) non è stato solo un attore, un comico, un doppiatore, uno sceneggiatore tra i miei preferiti ma rappresenta anche una parte della mia infanzia, condivisa con mio fratello.
Sono un po’ giovane per ricordarmelo nella serie tv Mork e Mindy (1978-1982) dove interpretava l’alieno Mork, ruolo che lo rese famoso in Italia, né lo ricordo nel ruolo diPopeye. Braccio di ferro (1980) di Robert Altman che lo consacrò sul grande schermo. Non lo ricordo neanche ne Il mondo secondo Garp (1981), né in Good Morning, Vietnam(1987) – film che vidi solo qualche anno fa – che gli valse una nomination all’Oscar, e alla fine vinse un Golden Globe, per la sua interpretazione di un militare americano che lavorava come deejay per la radio americana ascoltata da tutti i soldati impegnati in Vietnam. Era il 1989, l’anno de L’attimo fuggente di Peter Weir (uno dei miei preferiti, ma anche questo lo vidi solo molto dopo) dove Williams nel ruolo di un insegnante di lettere fuori dai rigidi schemi istituzionali che riesce a fare breccia nelle menti imberbi dei suoi giovani alunni. Seguono poi il commovente Risvegli (1990) con Robert De Niro e La leggenda del re pescatore (1991).
Ecco, finalmente ci siamo arrivati! Il 1991 è l’anno giusto, io avevo compiuto sei anni, e comincia la partecipazione di Williams a tutti quei film che hanno segnato la mia infanzia, il primo tra tutti è stato Hook. Capitan Uncino (1991) per la regia di Steven Spielberg in cui un cresciuto Peter Pan è costretto a tornare sull’Isola che non c’è per recuperare i suoi figli e la sua memoria da “bimbo sperduto”, abbandonato in un angolo buio del suo passato dove ha rintanato anche la sua creatività e la sua voglia di vivere. Di questo film mio fratello ed io conosciamo a memoria quasi tutte le battute e abbiamo giocato ai bimbi sperduti costruendo accampamenti di fortuna in cameretta in modalità talmente chiassosa e disordinata da far impazzire nostra madre.
L’anno seguente esce in sala un flop, Toys. Giocattoli (1992), ma subito dopo Robin Williams si trasforma nella spassosissima Mrs. Doubtfire (1993) – che vinse l’Oscar al miglior trucco nel 1994 – la quale altro non è che un padre divorziato che per stare vicino ai figli escogita lo stratagemma di travestirsi da giunonica governante che con la sua dolcezza conquisterà tutti. Nel 1995, avevo dieci anni, arriva Jumanjii. Robin Williams pare avesse imboccato la via dei film per ragazzi e quest’ultimo credo sia tra i preferiti dei bambini della mia generazione, ovviamente il mio: una partita ad uno strano gioco da tavolo diventa un’avventura a spasso nella giungla e nel tempo. Inutile aggiungere che possiedo ancora un logoro vhs che conservo come un cimelio.
La seconda parte degli anni Novanta lo vede alle prese con parti comiche e drammatiche: la divertente commedia piena di gag Piume di struzzo (1996) precede un grande successo che gli valse il Premio “Oscar” come miglior attore non protagonista, Will Hunting. Genio ribelle (1997), seguito dal fantasy Al di là dei sogni (1998) e nello stesso anno da Patch Adams, un film sulla terapia della risata che commosse tutto il mondo. L’uomo bicentenario(1999) chiude questo periodo: un robot domestico talmente legato alla famiglia di cui si prende cura tenta di diventare un umano, un film quasi profetico visto l’avvicinarsi del nuovo millennio.
La sua adattabilità a ruoli diversi lo vedono protagonista delle pellicole più disparate e la sua fama lo rende richiestissimo da quasi tutti i registi hollywoodiani, si susseguono One Hour Photo (2002), Insomnia (2002), The final cut (2004), Una voce nella notte (2006), la partecipazione ai tre Una notte al museo (2006, 2009 e 2014), L’uomo dell’anno (2006),August Rush. La musica nel cuore (2007), The Butler (2013), per citarne qualcuno. Sono questi solo alcuni degli ottanta ruoli, circa, con cui si è confrontato Robin Williams sulla tv e sul grande schermo. Decine di questi sono e saranno indimenticabili per tanti spettatori vecchi e nuovi: alcuni ci hanno fatto ridere, altri piangere, alcuni arrabbiare.
Poca retorica, però: ci lascia un grande attore, ma anche un uomo che ha deciso di farla finita per una sua scelta personale, forse per debolezza o paura. Troppo spesso immaginiamo le nostre star come degli esseri perfetti ma in realtà niente è come ci appare, come in una pellicola. Non ci resta che ringraziare Robin per averci fatto sognare, per averci permesso di vivere le sue avventure facendoci allontanare dalla nostra di vita per 120 minuti.
Claudia Santonocito
(www.excursus.org, anno VI, n. 63, ottobre 2014)