di GAETANINA SICARI RUFFO – Dino Campana è sicuramente uno dei poeti più grandi della modernità, amato dai giovani e vicino agli artisti, che tende verso un orizzonte indefinibile di bellezza e d’espressività. Per il centenario dei Canti Orfici [1] sono state organizzate molte celebrazioni, a partire dal paese in cui era nato nel 1885, Marradi, comune romagnolo vicino Firenze: mostre e convegni per illustrare degnamente la sua straordinaria eredità poetica finalmente rivalutata.
Sì, perché finché visse fu isolato e incompreso, ritenuto un fallito e poco apprezzato. Mentre oggi la sua poesia è ritenuta profondamente moderna, splendida, ricca di un estro forse scomposto visionario e mitico che riassume in sé la grande eredità dei classici, anzi li supera in nome di una sensibilità eccezionale che tende all’assoluto.
Già il nome Canti richiama a sé la grande esperienza del Leopardi: l’attributo Orfici – che deriva da Orfeo, redivivo dopo esser sceso agli Inferi –, indica un genere di poesia per iniziati, misteriosa, il cui cuore è La Notte. I fantasmi che la popolano sono i sogni e le elucubrazioni che la caratterizzano lampeggiano di emozioni e ricordi.
Dino Campana patì un certo disagio mentale per tutta la vita, tanto da essere internato a Castelpulci per molti anni; verso la fine viaggiò molto anche per cercare di trovare quella quiete che il suo animo inseguiva affannosamente. Nei suoi versi c’è la traccia degli itinerari e dei paesaggi superbi che gli si offrivano: Argentina, Montevideo, La Verna, Genova. Il suo mondo era come attraversato da lampi di luce che talvolta lo accecavano e non gli davano tregua, ma avevano una tale carica di vitalità, anzi di sensualità, che le immagini si susseguivano vorticosamente, tanto da sovrapporsi e creare echi rifrangenti.
Prendiamo per esempio La Chimera [2], che rappresenta la poesia stessa o la donna amata che il poeta invoca come immagine di salvezza e di bellezza infinita. Eppure nella mitologia è un mostro che strazia ed uccide, potente e temibile, assetata di sangue che spicca vivido tra i versi che infondono un senso d’amore e di vita; differenti dal consueto, talvolta in modo irriverente, come nelle parole che chiudono il viaggio in Argentina: «[il] cielo infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio» [3]. Questi ultimi richiamano Nietzsche e il pensiero della “morte di Dio” nel mondo e poi i poeti simbolisti francesi, da Mallarmé a Rimbaud ed il suo Battello ebbro [4] che fu il manifesto di una poesia moderna, oltre i confini dello spazio e del tempo, una poesia che si faceva visione onirica. Ma Campana va oltre. Nei suoi versi c’è l’eco di una conoscenza letteraria che riunisce in sé Dante e il meglio di una letteratura che s’era fatta viaggio dell’anima nell’oltretomba, poi nella realtà e nell’inconscio esplorato per via di illuminazioni e di frammenti.
«Non so se tra rocce il tuo pallido
viso m’apparve, o sorriso
di lontananze ignote
fosti, la china eburnea
fronte fulgente o giovine
suora de la Gioconda:
o delle primavere
spente, per i tuoi mitici pallori
o Regina, o Regina adolescente:
[…] Regina de la melodia:
ma per il vergine capo
reclino, io poeta notturno
vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo» [5].
C’è un saggio di Antonietta Acciani, che s’intitola Il Petrarca “oscurato” di Campana [6], nel quale si confrontano le somiglianze con la poesia petrarchesca negli angosciosi soliloqui d’amore per Laura. Amore e dolore si rivelano presenti nei ricordi che a volte non sembrano tali, ma quadri lampeggianti di vita vera. Non era affatto uno sprovveduto Dino Campana, ma aveva a lungo meditato sulla letteratura italiana e si era nutrito della sua quintessenza.
Il dramma che lo segnò all’inizio della sua carriera di poeta ed aggravò il suo male fu la perdita del manoscritto (che poi fu ritrovato nel ’71) con le poesie che aveva mandato nel 1913 a Soffici e Papini, direttori della rivista Lacerba. Diede in smanie e li accusò di averglielo appositamente sequestrato. Poi scrisse a Prezzolini che doveva essere pubblicato per provare di esistere e fece stampare i Canti nel 1914 da Ravagli, a sue spese, dopo averli riprodotti in tutta fretta. Furono accolti con una certa freddezza e quelli che per i critici contemporanei sono pregi, allora parvero, come afferma il critico Marino Biondi, «ombre malauguranti di sventura». Il visionario poeta incontrò poi nel 1917 Sibilla Aleramo e visse con lei una vicenda d’amore, ma non riuscì a guarire dal suo disagio che anzi peggiorò.
Il testo curato da Raffaele Girardi – Mente, male di vivere, modernità. Per il centenario dei Canti Orfici di Dino Campana (Mucchi Editore, pp. 208, € 17,00) – nella sua complessità, s’interroga su questo poeta e sul male che lo afflisse, comune ad altri poeti italiani, dai lontani Torquato Tasso e Amalia Rosselli, ai più vicini Lorenzo Calogero e Alda Merini, e cerca di stabilire il rapporto tra creatività e disagio mentale, poesia e salute psichica. Ospita altre inchieste che sono illuminanti come quella che, nel secolo dell’ansia del Novecento, ha dato il via a quest’esplorazione e cioè Una vita [8] e La coscienza di Zeno [9] di Italo Svevo.
Non ci sono risposte certe all’interrogativo: che cosa determina il male di vivere?
Sono le condizioni dell’esistenza, le abitudini, il carattere, l’ambiente che poi si traducono in un particolare linguaggio, i cui suoni e colori concorrono a scrivere quel fascino inedito, straordinario della poesia unica e nuova.
Gaetanina Sicari Ruffo
NOTE BIBLIOGRAFICHE
[1] – DINO CAMPANA, Canti Orfici e altre poesie, Garzanti, Milano, 2002.
[2] – IDEM, La chimera, in Canti Orfici…, cit., pp. 23-24.
[3] – IDEM, La pampa, in Canti Orfici…, cit., p. 73.
[4] – ARTHUR RIMBAUD, Battello ebbro, in Opere, Mondadori, Milano, 1992, p. 143.
[5] – D. CAMPANA, La chimera, cit., pp. 23-24.
[6] – ANTONIETTA ACCIANI, Il Petrarca “oscurato” di Campana, in RAFFAELE GIRARDI (a cura di), Mente, male di vivere, modernità. Per il centenario dei Canti Orfici di Dino Campana, Mucchi Editore, Modena, 2014, pp. 61-76.
[7] – MARINO BIONDI, Solitudini poetiche. Campana e Firenze, in R. GIRARDI (a cura di), Mente, male di vivere…, cit., p. 107.
[8] – ITALO SVEVO, Una vita, Garzanti, Milano, 2000.
[9] – IDEM, La coscienza di Zeno, Einaudi, Torino, 2014.
(www.excursus.org, anno IX, n. 84, luglio 2017)