Immaginiamo un immenso magazzino riempito di ogni genere di cose – quadri di ogni genere, macchine, strumenti, barche, case, statue, vasi, libri di prosa e di poesia, vestiti, giornali, francobolli, fiori, alberi, pietre, strumenti musicali. Ora chiediamo a qualcuno di entrare nel magazzino e di portare fuori tutte le opere che contiene.
William Kennick, Does Traditional Aesthetics Rest on a Mistake?[1]
di ALESSIA MARCHETTI – Quale criterio dovrebbe usare costui per operare le sue scelte? Quando si ha che fare con l’arte contemporanea, la risposta a questa domanda non è affatto scontata. Nella storia dell’arte i confini tra che cosa è arte e che cosa non lo è non sono mai stati messi in discussione come oggi. A chi non è capitato almeno una volta di entrare in museo di arte contemporanea ed avere dubbi circa la natura artistica o meno dell’oggetto che si ha di fronte: «Ma dimmi, secondo te, lo zerbino qui davanti fa parte della mostra o è semplicemente un comune zerbino?».
L’arte negli anni è profondamente mutata, o meglio, ciò che noi consideriamo arte è profondamente mutato. Se un uomo dell’Ottocento fosse stato catapultato all’interno dei padiglioni che qualche settimana fa hanno ospitato a Bologna la 42esima edizione di ArteFiera, e a costui si fosse chiesto di portare fuori tutte le opere d’arte lì contenute, è molto probabile che se ne sarebbe uscito a mani vuote. Oggi, invece, più di 48 mila persone hanno preso parte all’evento di Bologna, riconoscendo in quanto opere d’arte oggetti come una macchina da cucire con sopra una scimmia [figura 1],un pezzo di carta stropicciato con una scritta [figura 2], un groviglio di tubi di plastica [figura 3], solo per citare alcune delle opere che sono state esposte quest’anno.
Che cosa è accaduto? Che cos’è che oggi rende questi oggetti opere d’arte?
Certamente qualcosa è profondamente cambiato: durante l’evolversi del tempo storico il nostro concetto di arte è stato oggetto di una continua rinegoziazione e ridefinizione.A testimonianza di questa rinegoziazione vale la pena citare un processo tenutosi nell’aula di un tribunale americano nel 1927, in cui ad essere in gioco è proprio la definizione di opera d’arte. Le parti in causa sono lo scultore Costantino Brancusi e gli Stati Uniti. Lo scultore intentò causa allo Stato poiché aduna sua opera, Oiseau dans l’espace [figura 4], non era stato accordato l’esonero dai costi doganali, concesso di solito alle opere d’arte. La sua scultura era stata classificata dai doganieri come semplice utensile da cucina.
La sentenza finale del giudice è stata questa:
Nel frattempo si è sviluppata una cosiddetta nuova scuola artistica i cui esponenti cercano di rappresentare idee astratte invece che imitare oggetti naturali. Che si abbia o meno simpatia per queste nuove idee e per le scuole che le rappresentano, riteniamo che i fatti della loro esistenza e della loro influenza sul mondo dell’arte come questo viene riconosciuto nelle corti debbano venir tenuti in debito conto. […] Pertanto, ci associamo alla richiesta e concludiamo che sia autorizzato a una esportazione esentasse sulla base del paragrafo 1704, supra. Il caso è chiuso.
Vi è stato in effetti un momento significativo nella storia dell’arte che ha sancito il definitivo abbandono della concezione, fino ad allora dominante,di oggetto artistico come riproduzione o imitazione di modelli naturali (questa era infatti la definizione di opera d’arte adottata nelle dogane americane fino al 1922) e che ha reso possibile l’esistenza delle opere d’arte esposte oggi ad ArteFiera. Quando, agli inizi del Novecento, Duchamp esponeva il primo readymade della storia, Ruota di bicicletta (peraltro attualmente esposto in una bella mostra a Bologna dal titolo Duchamp, Magritte, Dalì), qualcosa è indubbiamente cambiato per sempre. Tutti i canoni artistici vigenti sono stati abbattuti: l’arte si è definitivamente sganciata dalla rappresentazione del mondo naturale per elevare al rango di opera artistica oggetti come ruote di biciclette, orinatoi, gioconde corredate di baffi e pizzetto, che affermavano sprezzanti: «Anche io sono un’opera d’arte! Non te lo aspettavi vero?».
Tutto ciò è stato possibile all’interno del contesto artistico, sociale e culturale, caratterizzato da un forte spirito di riscatto e rivoluzione, che ha animato le avanguardie novecentesche. Prescindendo da tale contesto, la natura artistica di questi oggetti non potrebbe in alcun modo essere riconosciuta. È chiaro, dunque, che il contesto determina significativamente ciò che consideriamo arte: uomini e donne appartenenti a periodi storici differenti, entrando in uno stesso magazzino, potremmo dire,all’interno di una stessa edizione di ArteFiera, ne uscirebbero fuori con oggetti completamente differenti. Dire tutto ciò oggi è ormai diventato banale. Il vero problema è quello di capire che cosa significa‘contesto’ e in che modo esso esercita la sua influenza sul mondo dell’arte.
Una possibilità consiste nel concepire il contesto da un punto di vista socio-politico, facendolo coincidere con le istituzioni dell’arte. In questo modo, il discrimine tra arte e non arte viene a dipendere da decisioni arbitrarie, spesso guidate da considerazioni di carattere economico, prese ai “piani alti” del mondo artistico, da galleristi, critici, mercanti d’arte o artisti che portano un certo nome. Un oggetto è un’opera d’arte quando qualcuno, legittimarlo a farlo, lo dichiara tale. Questa teoria, che in letteratura ha preso il nome di teoria istituzionale dell’arte (vedi ad es. Howard Becker, I mondi dell’arte, il Mulino [2]), è espressione di un sentire divenuto oggi piuttosto comune.
Esauritasi la spinta rivoluzionaria e l’aspetto di assoluta novità che ha caratterizzato e conferito significato ai prodotti dell’arte delle avanguardie novecentesche (si dice spesso, infatti, che dopo Duchamp non è più possibile fare né vedere nulla di nuovo),ciò che oggi viene selezionato come arte lascia spesso un po’ perplessi. Uno scontento visitatore di questa edizione di ArteFiera scrive infatti:
Lasciamo poi perdere quelle opere chiamate d’artista ma pubblicate al solo scopo di provocare, di creare clamore. Quelle “cose” (mai vocabolo fu più adatto) idonee solo ad attirare lo scatto divertito dei frequentatori curiosi di Arte Fiera.
Divenendo irriconoscibile una qualsiasi linea di confine oggettiva tra opere d’arte e semplici “cose”, nasce la tentazione di ridurre tutto quanto ad una questione di scelte arbitrarie che poco hanno a che fare con l’arte in quanto tale, ma che strizzano piuttosto l’occhio al mondo della politica e dell’economia. Se da un lato sarebbe ingenuo negare l’esistenza e l’importanza di questa dimensione, al tempo stesso, far collassare il mondo dell’arte in quello del mercato, e la distinzione tra arte e non arte alle regole che questo detta, ci lascia una sensazione di profonda insoddisfazione.
Quali alternative abbiamo? In quali altri modi possiamo declinare il concetto di contesto?In che cosa possiamo andare a cercare la cifra distintiva dell’opera d’arte, quel qualcosa che fa sì che, se entrassimo nei padiglioni di ArteFiera come il nostro magazziniere, muniti di un portafoglio piuttosto pesante, ne usciremmo, se non proprio avendo acquistato tutto, almeno qualche cosa?
Non volendo arrendersi a ridurre tutto a pura arbitrarietà, e squalificata la concezione dell’arte come imitazione della natura, ciò che sembra rimanere è la componente cognitivo-psicologica dell’opera d’arte. artefiera
Questa idea può essere declinata in modi diversi. Uno di questi, che riflette un punto fermo del senso comune, ha preso il nome di teoria emotivista dell’arte: qualcosa è un’opera d’arte quando è in grado di suscitare emozioni. Stiamo implicitamente adottando questa teoria ogni qualvolta che, di fronte ad un’opera d’arte,facciamo affermazioni del tipo: «Quanta sofferenza e rabbia mi trasmette quest’opera! Chissà quale dolore doveva provare l’artista!». Nel dire cose di questo tipo stiamo individuando la cifra distintiva dell’opera nello stato psicologico-mentale dell’artista; è questo stato psicologico che costituisce il contesto che, in questo caso, determina la natura artistica di quell’oggetto. È innegabile che esprimere emozioni sia una funzione fondamentale delle opere arte, tuttavia,non può essere questo l’elemento che le caratterizza: in fondo, anche le lacrime esprimono dolore e sofferenza, eppure certamente non diremmo che sono opere d’arte!
Anziché sulle emozioni, allora, altre teorie estetiche hanno posto l’accento sul messaggio contenuto nell’opera d’arte: un oggetto è un’opera d’arte quando veicola un certo messaggio, quando dietro vi è l’intenzione di un’artista che voleva dire che… Ruota di bicicletta è un’opera d’arte perché è il prodotto di un’artista, Duchamp, che voleva dire: «Facciamola finita con le regole dell’arte tradizionale! Ogni cosa può essere arte!». Allo stesso modo Art is Easy [figura 2] è un’opera d’arte perché Chiari voleva dire: «Arte è esattamente la sensazione di assurdità paradossale che provate leggendo questa frase!». Quante volte davanti ad un opera ci domandiamo «Ma che cosa avrà mai voluto dire l’artista?». Per trovare una risposta soddisfacente a questa domanda è spesso richiesta una certa conoscenza del contesto nel quale l’opera si inserisce, che comprende il contesto socio-culturale, ma anche la biografia dell’artista, il tipo di ricerca artistica che porta avanti, e così via. La conoscenza di tutti questi elementi ci aiuta ad interpretare l’oggetto, ad individuarvi il messaggio in esso contenuto, ed è proprio in questo atto di interpretazione che l’oggetto in questione diviene opera d’arte, viene trasfigurato in opera d’arte. Il termine trasfigurazione qui – ripeso da un testo di Arthur Danto, La trasfigurazione del banale (Editori Laterza) [3] – è da intendersi quasi in senso religioso. Così come l’ostia e il vino divengono, nella funzione sacra, il corpo e il sangue di Cristo, allo stesso modo, una ruota di bicicletta, attraverso l’atto interpretativo, diviene un’opera d’arte:comuni oggetti assumono nell’interpretazione uno statuto spirituale completamente differente. artefiera
Tanto questa teoria, così come quelle precedenti, catturano aspetti importanti che consentono di rispondere alla domanda «Quando è arte?». Un oggetto è arte quando è stato selezionato da determinate istituzioni artistiche,quando suscita emozioni, veicola messaggi, chiama ad essere interpretato. Tuttavia, ognuna di queste teorie sembra trascurare un aspetto fondamentale, e cioè l’opera d’arte stessa, il suo essere un oggetto fisico, in carne ed ossa, che richiede di essere osservato e percepito. Ognuna di esse individua la cifra distintiva dell’oggetto artistico in qualcosa che sta al di fuori dell’oggetto, o nel contesto esterno, le istituzioni dell’arte, o nella mente dell’artista. Esse cercano di guardare attraverso l’opera per individuarne il contenuto – il messaggio che l’artista vi ha inserito o lo stato d’animo che provava e che voleva comunicare – dimenticandosi che ciò che prima di ogni altra cosa è essenziale nell’arte è il modo in cui un certo contenuto viene trasmesso e filtrato.
Non si può guardare attraverso l’opera d’arte, gli occhi devono necessariamente posarsi sull’oggetto artistico stesso, sui suoi colori, sulle sue forme, sui suoi materiali, sul modo in cui l’artista ha deciso di realizzare fisicamente ciò che voleva comunicare; l’accento nell’arte non può essere solo sul cosa, ma deve essere anche sul come, sul modo in cui l’artista ci mostra il suo modo di vedere il mondo. Davanti ad un oggetto artistico non possiamo chiederci soltanto «Che cosa sento? Che cosa sentiva l’artista? Che cosa voleva dire?». La prima domanda da farsi è «Che cosa vedo?». L’opera d’arte ci invita a guardarla, a percepirla in modo complesso, e non soltanto a interpretarla, o meglio, l’interpretazione deve passare attraverso la percezione. Se non considerassimo questo aspetto, se contasse solo il contenuto, allora le opere d’arte non sarebbero diverse da un qualsiasi altro documento culturale, e dunque non ci sarebbe arte. Fare un’esperienza artistica significa primariamente fare un’esperienza estetica, dove il significato originario del termine ‘aisthesis’ è proprio quello di ‘percezione’, ‘sensibilità’, ‘capacità di sentire’.
Il punto è: «Vedo il dolore in quel quadro?»; «Percepisco l’intenzione dell’artista in quelle forme?»; «la conoscenza del contesto, inteso sia nella sua componente socio-culturale che in quella cognitivo-psicologica, diviene esperienza percettiva di ciò che l’artista voleva esprimere?».È quando non riusciamo a rispondere affermativamente a queste domande che ci viene istintivamente da storcere il naso, che facciamo fatica a riconoscere quell’oggetto in quanto opera d’arte e che nasce la tentazione di ridurre tutto a semplice arbitrarietà. artefiera
Alessia Marchetti artefiera
NOTE BIBLIOGRAFICHE
[1] – WILLIAM KENNICK, Does Traditional Aesthetics Rest on a Mistake?, in «Mind», n. 267, 67/1958, p. 327.
[2] – HOWARD BECKER, I mondi dell’arte, il Mulino, Bologna, 2012.
[3] – ARTHUR DANTO, La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte, Editori Laterza, Roma-Bari, 2008.
(www.excursus.org, anno X, n. 88, marzo-aprile 2018) artefiera