di RITA CASSANI – Più piccolo è il paese, più grandi sono i peccati. Il titolo del libro di Davide Bacchilega (Las Vegas Edizioni, pp. 304, € 15,00) è la massima che accompagna la trama dell’intero romanzo. Tutto inizia un giorno qualsiasi di un quasi Natale, con un qualunque giro di posta e l’arrivo di tre buste bianche, anonime: una a Barbara, una a Giorgia, una a Didi. Sono lettere inattese, indesiderate e contengono parole cattive, parole che «come queste non credevo si potessero neppure pensare».
Ravenna, costiera romagnola, 23 dicembre. Su il sipario.
Sul palcoscenico di una Romagna in bassissima stagione incontriamo le maschere di una recita natalizia fuori dai cliché. Barbara: modaiola dai capelli rosso fiamma, di professione prefica (pagata dalle agenzie di pompe funebri per piangere ai funerali); Didi, biondissima, cecoslovacca, che sogna di dare al figlio Pavel un futuro migliore in Inghilterra; Giorgia, prostituta in cura per problemi di prosopagnosia (non riesce a ricordare i visi delle persone). Trait d’union fra le tre donne è Ermes Donati, «imprenditore del piacere» che, in attesa di mettere la ciliegina sulla torta della propria vita mettendosi in politica, gestisce con maestria il suogiro di affari e il «welfare privato» fatto di ricatti e video compromettenti, dal quale Didi e Barbara sono già uscite: «In mezzo a una nebbia tanto spessa da poterla affettare come un salame, resto ad aspettare uno stronzo di albanese che crede di essere il più grande magnaccia dell’est e ora vuole espandere i suoi traffici anche in Romagna, lo sborone. Ma prima di impiantare da queste parti la sua nuova succursale, l’albanese sa bene che deve ottenere il mio consenso».
Intorno a Didi, Barbara e Giorgia ruotano altri personaggi. Ciascuno recita una parte, narra la porzione di una trama che corre a staffetta. Una sottile rete lega ciascuno a tutti gli altri e assegna loro un ruolo: il cinico cronista di nera Michele Zannoni, «Del muratore albanese assunto in nero che precipita da un’impalcatura non gliene frega un cazzo a nessuno. Di una quindicenne morta ammazzata invece sì […] Siamo fatti così. Proprio per questo adoro il mio lavoro»; Gola Profonda, il poliziotto che gli suggerisce le notizie: «Le cattive notizie sono buone notizie» gli annuncio. «Intendiamoci bene, le cattive notizie meglio darle a Michele Zannoni che ad altri. Per lui è solo un’abitudine lavorativa. Per gli altri è qualcosa che spezza la serenità delle abitudini»; Mauro, il tanatoprattore col sogno di partecipare a Chi vuol essere milionario? «Tanatocosa?» dice lei. «Aggiusto i morti» «Beh, allora sei venuto troppo presto»; il dottor Benelli, chirurgo di grido con un’inguaribile dipendenza da biliardo e belle donne «Tic, la stecca sul boccino. Tac, il boccino sulla boccia. Plof, la boccia nella buca. Tic, tac, plof. Suoni sottili, attesi, definitivi. Ecco perché adoro il biliardo: possiede un’elegante logica in cui l’imprevedibile non trova dimora»; e poi Marta Valbonesi, Giovanni Mainardi, il suo socio Paolo Guerra, Pavel e infine, ma non ultimo, Arrigosacchi, il cagnolino di Ermes con iperbolici problemi intestinali.
Sul palcoscenico di una Romagna in bassissima stagione, affogata nella nebbia di un Natale fuori dell’ordinario, tutti gli attori si narrano in prima persona. Ciascuno con i propri pensieri ricorrenti, e le formule ripetute come mantra, ognuno con le proprie paure e speranze, i propri desideri e sogni. Ma è proprio quando il lettore crede di perdersi in una nebbia dal sapore felliniano, è proprio quando la quotidianità riesce a far dimenticare le lettere minatorie, è proprio allora che le minacce iniziano ad avverarsi, tingendo il Natale di un rosso che non è quello dell’abito di Santa Claus: «Scintillano le fiamme ossidriche nel buio della sera. Lampeggiano le luci dell’ambulanza e dell’automezzo dei pompieri. Balenano ininterrottamente le quattro frecce della mia Punto in sosta. Questa vigilia luccica proprio come un albero di Natale addobbato a puntino».
Ciascuno è coinvolto nella storia, in un gioco di incontri e rimandi, di strade che di continuo si intersecano. La successione dei capitoli è resa fluida da uno stratagemma che pare ripreso dai libri antichi: come nelle antiche edizioni, l’ultima parola di una pagina viene ripetuta in prima posizione nella pagina che segue, così Bacchilega inizia ogni capitolo con la medesima parola o frase con cui ha terminato il capitolo precedente.
Ciascun capitolo porta il punto di vista di un personaggio, e con il suo nome lo intitola. Pertanto il narratore non è unico, ma tanti quante sono le voci parlanti. Il lettore si immedesimerà di volta in volta in una di loro, incanalandosi nel tunnel dei suoi pensieri. E ciascun capitolo è caratterizzato da un differente stile, da una sintassi e un lessico peculiari «Fuori di pub, vecchi signori e signore vanno in chiesa di fianco a passo felice. Gente che forse per anno intero non pregano una volta, ma quando viene Natale cantano tutti insieme ben vestiti con gesto di croce, inchino a Dio e comunione e tutto quanto» Didi); «A lavoro finito sono stanco ma felice del lavoro che ho appena finito. Riprendo l’ombrello e tutte le mie cose e rifaccio al contrario i corridoi stretti e scuri dell’ospedale». (Mauro) Tutto questo non solo accelera il ritmo narrativo, ma permette di vivere la stessa situazione dalla visuale di differenti personaggi. Basta infatti andare al capitolo successivo, che la battuta detta da uno degli interlocutori diventa quella dell’altro, e il punto di vista si ribalta, mentre la nuova scena altro non è che il naturale prosieguo di quella precedente.
È proprio il frammentarsi caleidoscopico dei punti di vista l’altra caratteristica che rende il romanzo interessante. Un romanzo corale, sì, ma un coro di solitari, dove ciascuna voce canta per sé sola e vive in una dimensione individuale, in quella personalissima filosofia di vita che ognun si è creato e cucito addosso, e della quale si fa scudo e maschera.
Sono le esperienze personali e un passato spesso difficile a plasmare i personaggi, in un bagaglio che l’autore presenta senza falsi pietismi e, anzi, guardandolo sempre con la lente di un’ironia che ha il sapore stuzzicante del politically incorrect «Allora mi faccio salire in gola tutto il magone che ho dentro: i ricordi di un padre non pianto, di una madre avara d’emozioni, di quel favoloso vestito di Prada che tre anni fa si è lacerato impigliandosi in un chiodo» (Barbara).
Su tutto domina la nebbia, che partecipa alla festa come un personaggio: di volta in volta è minaccia, mistero, ma anche nuvola soffice, bambagia, luce o tenebra. Anche se per lo più, la nebbia nasconde magagne, come il tappeto sotto il quale si cela la polvere: «Intanto la nebbia non sale agli irti colli piovigginando, perché quaggiù di colli non ce ne stanno. È tutta pianura che più piatta non si può. Le uniche increspature del paesaggio sono i cavalcavia che sormontano le autostrade e le ciminiere della zona industriale di Faenza. Lì, dove c’è puzza di diarrea marcia, vicino all’imbocco della A14» (Michele).
Sul palcoscenico di una Romagna in bassissima stagione si snoda la recita di un Natale sconquassato da una serie di omicidi, e i peccati del piccolo paese potranno emergere davvero solo quando la nebbia si solleverà. Ma sarebbe un vero peccato raccontarvi adesso il finale.
Rita Cassani
(www.excursus.org, anno VIII, n. 78,dicembre 2016)