di RITA CASSANI – «Il giorno che ho deciso di farla finita e mi sono impiccato, un sacco di gente che più o meno mi conosceva si è sforzata di pensare “Ma come, cazzo, si è ammazzato? Ma aveva tutto, aveva”. E però io mi sono impiccato. E però io avevo tutto, avevo».
Non è il finale del libro, ma l’inizio. Quello che Emiliano Ereddia ci fa rivivere in Per me scomparso è il mondo (Corrimano Edizioni, pp. 232, 15,00 €) è il percorso a ritroso, in caduta libera, che conduce il protagonista a questa tragica apertura del romanzo. Boss è il leader attempato di una rock band che ha visto tempi migliori. Vive completamente isolato dal mondo, intrappolato in un vortice che chiama drogalcol. Nessuno ha accesso al suo universo alienato, tranne gli altri componenti della band: Bros, Staisereno, P e Q., oltre allo spacciatore ufficiale del gruppo: Doc.
Ogni rapporto famigliare è disfatto, costituito unicamente da una ex moglie e una figlia senza nome: «Da qui non ci sono più suoni. Gli occhi della Ex scrutano la terra straniera alla ricerca della prole. Si illuminano e si sgranano e la faccia della Ex si trasfigura attraversando una serie di smorfie che tendono al rotondo e al gonfio pur non mortificando i lineamenti della Ex. La Figlia della Ex, come un cucciolo di scimmia, balza prodigiosamente in braccio alla madre. Tutte e due si esibiscono in una strana performance animale che un antropologo probabilmente chiamerebbe Manifestazione d’Affetto». Le due donne, in realtà nessuno dei personaggi ha un nome. Tutti, compreso il protagonista, sono designati da nomignoli che li riducono a maschere, ne celano il volto e li trasformano in comparse.
La vicenda è semplice: un video, fatto da chissà chi e chissà come, che ritrae Boss nudo con una fan minorenne. È un ricatto che produce il suo strascico di reazioni, filtrate dalla mente allucinata del protagonista. Che fare? Cedere al ricatto? Presentarsi al mattatoio mediatico di una trasmissione televisiva tenuta dal “Figlio di puttana perfetto”? Affidarsi a un avvocato che insieme ai capi della casa discografica cerca il modo per far dimenticare anche questo segreto della band? Un universo irrimediabilmente buio circonda i personaggi d questo volume. Un mondo nel quale cinici interessi economici e commerciali prevalgono su tutto e dove drogarsi, ubriacarsi, e perdersi nel nulla è l’unica alternativa alla schiavitù commerciale della vita pubblica.
In questo mare burrascoso il protagonista naviga a vista, senza riconoscersi in nulla. Persino il narratore pare prendere le distanze da lui, tanto che gli si rivolge in una desolante seconda persona, come a negargli il diritto di parola: «Tu non conosci il nuovo millennio. Anche perché il giubileo ti è stato molto sul cazzo. Dunque, nel millenovecentonovantadieci stavi comprando in incognito dentro a un megastore della Feltrinelli un tuo nuovo best-of numero 1486 a cui avevi opposto una pallida – pallidissima, sbiadita, svolazzante – resistenza dicendo ai tipi della casa discografica che il tuo pubblico non ne poteva più delle copertine in cui ti ringiovanivano di dieci anni e dei pezzi triti e ritriti che i fan per forza di cose avevano già e che i non-fan ormai scaricavano da internet quando ancora [bei tempi] i pezzi si scaricavano con il mulo o Nasper e non si ascoltavano a qualità-merda direttamente da YouTube come invece si fa adesso».
Unica che si salva è la musica: Faro nella nebbia del drogalcol, sola lucida e consapevole realtà. Tanto che persino lo scampanio della vicina chiesa si trasfigura in una nota melodia pop e innesta i ricordi di un decennio – gli anni Ottanta – di tempi decisamente migliori: «Appizzi l’orecchio e aspetti il rintocco successivo. Le riascolti. È quel DAN-DAN-DAN-DAAAN-DAN – “Sarà perché ti amo”, pensi, in automatico. E ti ricordi di Angela, la moretta, che saltella a piedi uniti e con la testolina fa un rapido destra/sinistra come un’insegnante di aerobica in un VHS di aerobica. Poi, di nuovo: DAN-DAN-DAN-DAAAN-DAN – “Che cresce piano piano”, pensi, subito. E ti appare il muso lungo di Franco, i suoi baffi e i suoi bassi, i cantati impercettibili con quella triste faccia da bruttone e da cane triste con la faccia da cane baffuto triste».
La musica è l’unica a non abbandonare il protagonista. Resta con lui persino in punto di morte, quando diventa la sola concessione a un estetismo quasi dandista, un art for art’s sake stile hard rock: «e quando ho ritenuto che nella canzone dei Dead la morte stesse spazzando via un’intera famiglia, in quel momento, istante più istante meno, ho strattonato con la punta di un piede e mi sono impiccato, sperando di morire con loro, la famiglia della canzone, e che quindi quella canzone fosse dedicata un po’ anche a me e che io facessi parte di quella famiglia immaginaria così tristemente pianta nel blues dei Dead. E che cazzo, dopotutto mi stavo ammazzando con una colonna sonora».
Alla fine è la morte che – troppo tardi – ricompone la vita polverizzata del protagonista. E ridà senso sia alla famiglia che a una figlia cui per la prima volta rivolge parole di tenerezza:
«Questi pensieri.
Queste brutte bestie.
E a te non piacevano, non ti piacevano mai.
E tu invece li capivi ma non li volevi capire.
E chissà se li capirai mai, tu, piccola mia.
Tu che mi portavi con te.
Tu che mi pensavi.
Tu che a un certo punto di tutto, poi, non ci sei stata più.
E non è mai stata colpa nostra, lo sai? […]
Perché rimane questo.
Le chiavi lasciate in tasca.
Le sottilette in frigorifero.
Le due rosette che ho comprato al panificio e adesso chissà dove stanno.
I tuoi occhiali da sole.
I miei occhiali da sole.
Il libro buttato sul divano.
Il vampiro che mamma teneva sotto la cassapanca.
Sono io».
Lo stile narrativo è sfilacciato, polverizzato, ribaltato. Esattamente come il protagonista. Su una linea sperimentale che ricorda certe produzioni dadaiste e surrealiste, Emiliano Ereddia si abbandona a lunghissimi monologhi privi di punteggiatura, pagine di parole cancellate, interminabili flussi di coscienza nel bel mezzo di un dialogo con l’avvocato, frasi ripetute ipnoticamente, interi paragrafi dove le parole non sono neppure distanziate tra loro. Il brulichio di quest’ultime fa entrare il lettore direttamente nella mente del protagonista, perso nel buco nero del drogalcol, o sprofondato nel baratro di una lucida disperazione.
La spirale si ripete fino al termine di questa storia, la cui circolarità riconduce al punto di partenza. Nel quale la successione di frasi introdotte da un reiterato “E” pare sottolineare il dondolare cadenzato del corpo ormai quasi senza vita dell’impiccato, e dove la ritrovata umanità della morte riunisce di nuovo il protagonista e il narratore in una prima persona singolare: «E penzolo dal jack. E il tubo si stacca dalla guida che lo assicura al muro ma tutto regge ancora bene. E sento adesso un leggero dondolio. E i rumori dalla strada. E l’acufene ritorna».
Certi libri sono una sfida: in linguaggio, stile e contenuto. Essi si possono amare o detestare. Ma al di là di come se ne esce, vale comunque la pena raccogliere il guanto del duello che provocatoriamente ci lanciano. È il caso di Per me scomparso è il mondo di Emiliano Ereddia.
Rita Cassani
(www.excursus.org, anno VII, n. 69, aprile 2015)