Per dieci minuti – Chiara Gamberale

di CLAUDIA MANNINO – Una storia comune di cui abbiamo sentito parlare milioni di volte nei libri, nei film o che forse è capitato anche a noi stessi di raccontare. Un amore e un matrimonio andati in pezzi, il proprio lavoro affidato a un altro, il trasferimento dalla tranquilla e sicura realtà di un piccolo paese alla caotica e “indifferente” capitale.

Per dieci minuti, romanzo di Chiara Gamberale (Feltrinelli, pp. 188, € 12,00), non è certo originale per la trama: ma chi ha mai sentito dire che da una situazione difficile, da una crisi che ha fatto crollare tutte le nostre certezze, si possa risalire a galla grazie a un “gioco”? Può davvero aiutare per dieci minuti mettersi alla prova ogni giorno, per un mese, e cimentarsi in qualcosa di nuovo che non si è mai fatto prima?

A Chiara, protagonista del racconto, è stato sottratto il suo “piccolo mondo”, non ha ormai più niente da perdere: decide di provarci. «Perché nelle infinite semplificazioni con cui crediamo di metterci in salvo e dentro cui invece ci perdiamo, c’è una cosa, una soltanto, che non può venirci dietro, che non possiamo ingannare. Questa cosa è il tempo».

Per una persona che si è sempre tenuta lontana dai fornelli, che non ha dimestichezza con la danza, che non ha mai ricamato, è possibile in dieci minuti imparare a preparare dei pancake, a ballare l’hip-hop, l’arte del punto croce? «In ogni essere umano esistono facoltà latenti attraverso le quali egli può giungere alla conoscenza del mondo».

Vivere nuove esperienze, con o senza un vero e proprio successo, significa, per Chiara, scoprire lati nascosti del suo carattere. Imparare qualcosa di nuovo significa provare a superare i propri limiti e avere il coraggio di prendere tutto ciò che di buono può esserci in una giornata qualunque. Significa tentare di rompere quegli schemi mentali che ci incatenano e che ci impediscono di vivere pienamente la nostra vita. Attraverso i dieci minuti, la protagonista analizza e acquisisce una consapevolezza e una maturità diversa.

Ogni tanto è necessario fermarsi e porsi alcune domande: come sto vivendo la mia vita? Cosa posso fare per migliorarla e per migliorarmi? Assorbiti, come siamo, dal lavoro, dalla famiglia, da mille impegni e assuefatti alla routine quotidiana, spesso abbiamo bisogno di uno “scossone”, di qualcosa che ci dia l’occasione di riflettere. Non ci accorgiamo di quanto siamo impotenti, della nostra impossibilità di controllare ogni situazione e di come le nostre certezze possano all’improvviso crollare, fino a quando non vediamo la nostra vita sfuggirci di mano. Non la riconosciamo più: realtà e sogno si confondono. Un abbandono, un distacco, è sempre doloroso ma può nascondere in sé anche nuove opportunità. A dominare, infatti, in questo romanzo, non è il senso di rassegnazione di fronte a un cambiamento: «cambiare è mortale ma anche vitale», cioè il cambiamento è doloroso ma necessario.

Chiara era una giovane donna che, totalmente assorbita dalla dimensione della sua Egoland, faceva abuso di pronomi possessivi, incapace di vedere la realtà che le stava intorno, se non con pregiudizi infondati. Come quella Roma che non le piaceva perché indifferente, vuota, cinica, piena di turisti, occasioni sprecate e marziani. Adesso riesce a guardare al di là della sua Egoland e scopre la fortuna di avere una famiglia e degli amici che le vogliono bene. «Da quando la mia vita è vuota, non mi ero accorta che fosse così piena» scrive, facendo un salto dal suo palazzone di timidezza e pacata indifferenza, situato nei pressi dell’inospitale Egoland.

Un simpatico e fraterno amico con le pailettes, che nasconde boa di piume sotto i completi da bancario; i coinquilini di gioventù; gli innumerevoli ospiti della sua vecchia rubrica; le giovani aspiranti scrittrici conosciute durante le presentazioni nei licei; e poi c’è Ato, un italiano stentato, la pelle diversa, una famiglia al di là del mare, della guerra, della povertà. Un figlio mancato. In fondo, cosa c’è di importante se non costruire legami, rapporti umani e imparare a tollerarsi l’un l’altro, ognuno con i propri difetti?

Chiara inizia ad apprezzare la realtà della capitale, fatta di situazioni e di persone nelle quali trova anche l’ispirazione per scrivere il suo nuovo romanzo: scrivere è l’unica cosa capace di riconsegnarle il suo “io”. Dunque, i dieci minuti diventano soprattutto l’occasione per riflettere su di sé, per guardare con occhi nuovi la realtà che le ruota intorno e per riscoprire l’importanza di quello che già possiede.

Non si tratta di un romanzo rosa, con tracce di puro sentimentalismo, ma di un diario-racconto introspettivo, psicologico, di chiara ispirazione autobiografica. Con un linguaggio scorrevole e semplice solo all’apparenza, ricco di immagini metaforiche e di spunti di riflessione, l’autrice riesce a scavare nell’intimo dello stato d’animo del suo personaggio, nel quale possono rispecchiarsi i suoi lettori: «uguali solo a noi stessi, con la speranza di affidare a un’altra storia la nostra. Per perderla, per ritrovarla. Per rimediare, in qualche modo, all’esistenza».

Frasi brevi e immediate che arrivano subito al lettore; dialoghi e situazioni divertenti che allentano la “tensione” e che riescono a strappare un sorriso. La lettura risulta piacevole, non troppo impegnativa, senza però cadere nel ridicolo e nello scontato. Non mancano riferimenti letterari: trovarsi ad assistere per caso alla tesi di laurea di una sconosciuta, che tratta un’analisi di romanzi contemporanei che, in qualche maniera, si rifanno a Madame Bovary di Flaubert, diventa un altro spunto di riflessione per la protagonista del romanzo e per i suoi lettori. Una minore intensità di aspirazioni permette una maggiore coincidenza con la propria vita?

Certamente da citare il capitolo conclusivo, costruito secondo il modello del monologo teatrale, nel quale una “nuova” Chiara comprende, con fredda e lucida razionalità, di aver interiorizzato e superato la dicotomia pirandelliana riguardo al concetto di “vita”. Una vita in cui è indispensabile emanciparsi, spogliarsi delle maschere e in cui noi dobbiamo saltare. «Nudi. Saltare. E basta».

Claudia Mannino

(www.excursus.org, anno VII, n. 69, aprile 2015)