di GIUSEPPE LICANDRO – Il 28 giugno 1914 lo studente Gavrilo Princip, membro dell’associazione nazionalistica Giovane Serbia e del gruppo terroristico “Mano nera”, uccise con due colpi di pistola l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este, nipote dell’imperatore Francesco Giuseppe ed erede al trono asburgico, e la consorte Sofia von Hohenberg, scatenando così il casus belli che innescò la Grande Guerra.
In occasione del centenario dello scoppio del Primo Conflitto Mondiale, sono stati pubblicati innumerevoli scritti su quella che il pontefice Benedetto XV definì una «inutile strage», tra i quali segnaliamo la raccolta di saggi Obiettivo Grande Guerra. Sarajevo 1914 (Kellermann, pp. 96, € 10,00), a cura del Centro di Documentazione Storica sulla Grande Guerra. Il libro contiene i contributi di Adriano Favaro, Elisa Ruggiero, Stefania Salvadori, Paolo Seno, Sergio Tazzer, i quali affrontano – come si spiega nella Presentazione – due aspetti dell’evento: «l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 e alcuni spunti riguardanti la fotografia, che durante il conflitto ebbe uno sviluppo incredibilmente accentuato». Il testo è corredato da numerose immagini fotografiche, scattate in prevalenza sul fronte italiano, a riprova di quanto esse fossero utili per le azioni militari.
Due principi non proprio amati
Nel saggio 28 Giugno 1914, Sarajevo. Due colpi di pistola e qualche tappo di champagne, Sergio Tazzer, giornalista e presidente del Cedos Grande Guerra, tratteggia i momenti salienti dell’attentato avvenuto nella capitale della Bosnia-Erzegovina, descrivendo l’indole e le idee di Francesco Ferdinando, che lo resero antipatico a molti suoi compatrioti.
L’arciduca è rappresentato da Tazzer come un uomo «defilato, collerico, ammalato», inviso ai membri della corte austro-ungarica «per i suoi scatti d’ira, il carattere, diffidente, suscettibile e vendicativo, il suo mutare continuamente opinione e soprattutto per i litigi ripetuti con […] Francesco Giuseppe». Egli, inoltre, era un accanito cacciatore e si narra che, durante una battuta di caccia in Boemia Centrale, avesse sterminato circa duecento daini «uccidendo per sbaglio anche un battitore». I dissidi con lo zio risalivano all’estate del 1900, quando Francesco Ferdinando decise di convolare a nozze con la contessa Sofia, la quale, pur facendo parte del casato boemo dei Chotek von Chotkow und Wognin, non apparteneva però a una famiglia regnante e non poteva legittimamente sposare l’erede al trono asburgico.
Le nozze si svolsero ugualmente l’1 luglio 1900 nel castello di Zákupy in Boemia, ma si trattò di un matrimonio morganatico, sicché gli eventuali figli non avrebbero potuto aspirare alla successione imperiale e «Sofia non sarebbe mai potuta diventare né imperatrice d’Austria, né regina d’Ungheria». Francesco Ferdinando sostenne idee politiche alquanto stravaganti e un po’ confuse: da un lato, era favorevole al suffragio universale maschile e alla creazione di un regno autonomo dei popoli slavi all’interno dell’Impero Austro-Ungarico; dall’altro, nutriva sentimenti antisemiti e antiungheresi, era un cattolico integralista e odiava gli italiani «colpevoli di aver abbattuto il potere temporale della Chiesa».
L’Associazione segreta “Mano nera” era costituita da militanti alquanto sanguinari – che nel 1903 avevano già preso parte al duplice omicidio del re serbo Alessandro I Obrenovič e della moglie Draga – ed era eterodiretta dal colonnello Dragan Dimitrijevič, capo del controspionaggio militare. I nazionalisti di Belgrado aspiravano alla creazione di un grande stato degli slavi del Sud e consideravano l’arciduca una grave minaccia per il loro progetto politico, poiché egli era intenzionato a modificare l’assetto dualistico dell’Impero, costituendo un “trialismo” che prevedeva la creazione, accanto all’Austria e all’Ungheria, di un terzo polo imperiale formato da Bosnia-Erzegovina, Croazia e Slovenia.
Una morte davvero beffarda
Molto innamorato della bella consorte boema, Francesco Ferdinando decise di portarla con sé il 28 giugno 1914 – quattordicesimo anniversario del giuramento con cui l’arciduca aveva sottoscritto le nozze morganatiche – a Sarajevo, dove doveva assistere alle manovre estive dell’esercito austro-ungarico in qualità di Ispettore generale delle Forze armate. Dimitrijevič sguinzagliò quella mattina in giro per la città bosniaca vari killer, pronti a colpire: verso le 10:15 un primo attentatore – Nedeljko Čabrinović – scagliò contro la macchina della coppia una granata, ma mancò il bersaglio, ferendo invece due accompagnatori dei principi, il colonnello Erich von Merizzi e il conte Alexander Boos Waldeck, che viaggiavano su un’altra vettura.
L’arciduca e la consorte si recarono poi al municipio di Sarajevo, dove assistettero a una breve cerimonia commemorativa della battaglia della Piana dei Merli, persa nel 1389 a Kosovo Polje da un esercito di cristiani slavi contro i turchi ottomani. Francesco Ferdinando protestò vivacemente per l’attentato subito col sindaco Fehim Effendi Čurčić, chiedendogli «se quello era il modo di accogliere l’arciduca erede al trono». Intorno alle 11:00 i coniugi decisero di recarsi all’ospedale per far visita ai feriti dell’attentato, ma durante il tragitto l’autista – Leopold Lojka – sbagliò strada e finì per passare proprio davanti a Princip, che approfittò dell’incredibile circostanza per sparare a distanza ravvicinata all’arciduca e alla consorte, uccidendoli. Il terrorista serbo, subito arrestato dalla polizia bosniaca, non fu giustiziato a causa della giovane età – aveva, infatti, solo diciannove anni – e fu condannato a vent’anni di carcere, ma morì in prigione di tubercolosi nel 1918.
La notizia dell’assassinio di Francesco Ferdinando e di Sofia, pur sconvolgendo l’opinione pubblica europea, fu accolta tiepidamente negli ambienti imperiali austro-ungarici. Secondo Tazzer, infatti, «la scomparsa dell’arciduca ereditario non suscitò molta impressione a Vienna»: addirittura corsero voci malevole di «tappi di champagne che saltavano nei salotti di qualche palazzo, e non solo ungherese». I funerali dei due sfortunati consorti si tennero a Vienna il 2 luglio 1914, in tono dimesso: le loro bare furono poi trasportate e inumate nella cappella del castello di Artstetten in Bassa Austria, dove si trovano ancora oggi.
Le cause del conflitto mondiale
Nel saggio Il lungo luglio 1914 fra Vienna e Belgrado, la ricercatrice Stefania Salvadori prende in esame le cause profonde che portarono alla Grande Guerra, ritenendo a ragione che il duplice omicidio di Sarajevo sia stato solo «il suo fattore scatenante». La studiosa ricorda che, per lungo tempo, gli storici hanno imputato alla Germania e all’Austria-Ungheria «uno spietato atteggiamento guerrafondaio», ma recentemente nuove interpretazioni critiche hanno fatto breccia, come quella di Cristoph Clark, il quale, nello scritto The Sleepwalkers. How Europe Went to War in 1914 (Allen Lane), ha distribuito equamente le responsabilità del conflitto, imputandole soprattutto «all’irrazionalità del pensiero stereotipato e alle antiquate illusioni dei leaders europei».
La Salvadori è d’accordo solo parzialmente con questa tesi, perché non tiene nel dovuto conto «i precisi progetti bellici di una parte delle gerarchie austro-ungariche e tedesche», che sfruttarono la tragedia di Sarajevo per mettere in atto un’improbabile “guerra-lampo”, senza considerare la reale forza degli avversari.
Il principale fautore della guerra fu il conte Franz Conrad von Hötzendorf, capo di Stato Maggiore dell’esercito austro-ungarico, che si dimostrò miope di fronte al prevedibile evolversi degli eventi, condizionando anche l’imperatore Francesco Giuseppe. Conrad von Hötzendorf fu supportato nei suoi intenti bellici dal conte Leopold von Berchtold, Ministro degli Esteri del governo asburgico, il quale riuscì a suggestionare l’opinione pubblica austriaca e a ottenere l’appoggio militare della Germania, fingendo di voler intavolare trattative con la Serbia per una soluzione pacifica della crisi balcanica. Un ruolo decisivo fu rivestito, però, anche dal kaiser tedesco Guglielmo II di Hohenzollern, il quale, ponendo fine al sistema di equilibrio europeo costruito dal cancelliere tedesco Otto von Bismarck, intraprese dopo il 1890 una “politica di potenza” che andò a scontrarsi fatalmente con gli interessi internazionali della Francia e della Gran Bretagna.
Tra le cause del conflitto, tuttavia, non vanno dimenticati altri fattori rilevanti, quali il “revanscismo” francese sui territori dell’Alsazia e della Lorena – persi in seguito alla Guerra franco-prussiana del 1870 – e la “questione balcanica”, su cui «si concentravano gli interessi e le preoccupazioni di molti, anche dello Zar che aveva assicurato di vigilare sull’indipendenza della Serbia». Ottenuto il 6 luglio il sostegno militare del cancelliere tedesco Theobald von Bethmann-Hollweg, il governo austro-ungarico approntò il testo di un ultimatum da inviare alla Serbia, che fu consegnato formalmente il 23 luglio dall’ambasciatore tedesco a Belgrado, Wladimir Giesl. Due giorni dopo Nikola Pasič, premier serbo, rispose alle richieste, accettandole solo in parte e rifiutandosi di accogliere in Serbia i poliziotti asburgici che avrebbero dovuto indagare sui mandanti del duplice delitto di Sarajevo. Il 28 luglio il governo di Vienna, forte dell’appoggio tedesco, dichiarò guerra alla Serbia, innescando così «un prevedibile effetto domino sullo scacchiere europeo» che portò in pochi giorni all’allargamento del conflitto su scala mondiale.
L’impiego delle foto nelle azioni militari
Nel saggio Obiettivo Grande Guerra, Adriano Favaro, fondatore del Foto Archivio Storico Trevigiano, parla del ruolo che le fotografie svolsero sul piano strategico durante la Grande Guerra, illustrando la mostra “La guerra a colori. La Prima Guerra Mondiale come non l’avete mai vista”, a cura di Reinhard Schultz, tenutasi a Roma dal 6 dicembre 2009 al 6 gennaio 2010, a cura dell’Associazione “Civita”. Favaro ricorda che la mostra era costituita da «ben settanta foto scattate da tanti fotografi di quei tempi», tra i quali il tedesco Hans Hildebrand, il russo Sergej Prokudin-Gorskij, gli australiani Hubert Wilkins e Frank Hurley, i francesi Jules Gervais-Courtellemont, Leon Gimpel e Fernand Cuville.
L’esercito italiano diede molta importanza all’uso militare delle immagini fotografiche, creando numerose squadre di fotografi che operarono in varie zone del Triveneto e permisero di osservare attentamente le trincee nemiche da attaccare. Molti soldati e ufficiali, perciò, furono dotati di una macchina fotografica, la Vest Pocket Kodak, che non usarono solo per scopi militari, ma anche per «riportare a casa ricordi di guerra». Molti furono i fotografi professionisti che si formarono negli anni del Primo Conflitto Mondiale.
Tra i tanti, Favaro ne ricorda tre in particolare: Attilio Barbon, che imparò l’arte fotografica svolgendo le mansioni di attendente di un capitano a Trieste; Giulio Dall’Armi, il quale, lavorando come garzone in uno studio fotografico di Vittorio Veneto, ebbe modo di scattare numerose foto ai soldati che tornavano in licenza dal fronte; Luca Comerio, che fu «l’unico civile ad essere autorizzato […] ad effettuare riprese cinematografiche sui campi di battaglia», filmando, tra l’altro, l’ingresso dei cavalleggeri italiani a Trento il 3 novembre 1918.
L’influsso delle immagini aeree sulla pittura
Nel saggio La Grande Guerra tra cielo e terra, Elisa Ruggiero, membro dell’Aeronautica Militare, si sofferma ad analizzare l’impiego degli aeromobili nelle operazioni belliche, mettendo in risalto come «la ricognizione aerea diventò importante […] per la realizzazione di carte topografiche». Le manovre di ricognizioni erano in genere eseguite in giornate metereologicamente favorevoli, soprattutto nelle zone in cui erano state scavate delle trincee. Sul fronte italiano furono impiegati all’uopo i biplani Ansaldo S.V.A., protagonisti di molteplici imprese militari.
La più importante fu compiuta a Vienna il 9 agosto 1918 da una squadriglia aerea, capitanata da Gabriele D’Annunzio e Natale Palli: gli aeronauti, decollati da Padova, raggiunsero la capitale austriaca e scattarono «numerose fotografie del territorio, lanciando migliaia di volantini con due messaggi stampati in italiano e in tedesco che contenevano una provocatoria esortazione alla resa». Le foto scattate dall’alto e le riprese filmate realizzate dagli aerei suscitarono grande interesse nell’opinione pubblica e influenzarono la pittura del primo Novecento: tra il 1914 e il 1916 il futurista Edward Wadsworth creò lo stile denominato “vorticismo”, che si ispirava alle fotografie aeree; Piet Mondrian maturò la sua conversione all’astrattismo grazie alle suggestioni provate guardando il documentario bellico En Dirigeable sur le Champs de Bataille di Lucien Lesaint; Kazimir Malevič, esponente del suprematismo russo, tenne spesso conto nei suoi quadri delle vedute dall’alto; nel 1933 Alfredo Gauro Ambrosi dipinse l’opera futurista Volo su Vienna, rifacendosi proprio alle foto scattate durante l’impresa di D’Annunzio.
Un alpiner referent sul Monte Nero
Obiettivo Grande Guerra si chiude col saggio Le foto di Karl Pflanzl, alpiner referent sul Monte Nero di Paolo Seno, fondatore dello Studio bibliografico Ofi. Egli prende in esame alcune delle oltre 130 foto scattate sul fronte sloveno dal capitano austriaco Karl Pflanzl – «una delle figure chiave della guerra in alta quota» – il cui impegno fotografico ha consentito «di scoprire aspetti inediti che hanno caratterizzato un settore tanto celebrato come quello del Monte Nero». L’alpiner referent fu una figura speciale dell’esercito austro-ungarico e doveva assolvere molti incarichi, tra i quali «l’assistenza nella progettazione e nella realizzazione di fortificazioni, di osservatori e di postazioni, il coinvolgimento nella preparazione delle operazioni militari, la partecipazione alle esercitazioni, la formazione sul campo dei soldati e degli ufficiali impegnati in prima linea».
Il Monte Nero fu conquistato il 16 giugno 1915 – con un’azione ardita – dai soldati italiani, i quali poi tentarono di occupare anche il limitrofo Monte Rosso, dove però lo scontro militare si trasformò in una logorante “guerra di posizione”. Le foto di Pflanzl consentono di cogliere i dettagli della vita in prima linea, ritraendo «trincee, caverne, camminamenti, osservatori, pezzi di artiglieria» e inoltre «lo straordinario sistema di collegamenti messo in atto dagli austro-ungarici per alimentare questo settore del fronte». Le istantanee di Pflanzl riprendono anche le tragiche immagini di una slavina abbattutasi sulle baracche di una compagnia di militi, svelando nello stesso tempo «aspetti che si staccano drasticamente dalla brutalità della guerra», ad esempio «soldati impegnati in attività d’ufficio o in momenti di relax».
Questi contributi fotografici servono a comprendere meglio la drammatica condizione dei combattenti e la straordinaria mobilitazione di uomini e mezzi della Grande Guerra, la quale, oltre a costare la vita a oltre 9 milioni di soldati, rappresentò l’inizio del “secolo breve”, cioè di quella che, secondo lo storico britannico Eric Hobsbawn, fu «l’epoca più violenta della storia dell’umanità».
Giuseppe Licandro
(www.excursus.org, anno VII, n. 70, maggio 2015)