di EMILIANO CAVALIERE – Ad un anno dalla morte di Seamus Heaney, arriva in Italia la sua prima raccolta poetica, Morte di un naturalista (traduzione di Marco Sonzogni, Mondadori, pp. 118, € 17,00), uscita in Inghilterra nel lontano 1966, paradossalmente per ultima tra tutte le opere di un poeta che è Premio Nobel per la Letteratura dal 1995 e la cui voce vanta già eco internazionale.
Come nota Sonzogni, l’opera presenta numerosi punti di contatto con le raccolte successive, in particolare con l’ultima, Catena umana (Mondadori, 2010), che sembra chiudere in un cerchio i temi fondamentali dell’esperienza poetica nata con Morte di un naturalista. I simboli, i richiami (come l’aquilone, la vanga, la penna) di un mondo familiare, agricolo e naturale, della musica e della morte, si ripresentano, simultaneamente e progressivamente, nella vita dell’autore (indiscutibile prima fonte d’ispirazione) e nella sua poesia.
Uno in particolare di questi fils rouges, l’immagine dell’aquilone, desterà l’immediato interesse del lettore italiano per l’inaspettato legame creato tra il poeta irlandese e uno dei grandi poeti della nostra storia letteraria, Giovanni Pascoli. Un legame, questo, che si riflette non solo nei simboli e nelle immagini poetiche, ma anche nel tono della poesia heaneyiana (che spesso mostra la sensibilità di un bambino filtrata dal pensiero adulto) e nei suoi temi (che numerose volte provengono dall’esperienza infantile); entrambi questi aspetti riverberano la celebre “poetica del fanciullino”. Al mondo visto con occhi infantili, non a caso, si rifanno le poesie che aprono e chiudono la raccolta (Digging e Personal Helicon), come pure la sua poesia eponima.
Tuttavia, l’obiettivo che il poeta si propone in entrambe le composizioni di margine non è la descrizione o il semplice recupero dell’infanzia, ma piuttosto indicare la via per filtrarla attraverso il suo sguardo adulto e per farne, in questo modo, materia di conoscenza nuova. Così, in Digging, il nucleo poetico sta nell’occhio del bambino (che osserva, studia e ammira il padre e il nonno mentre lavorano, instancabili, scavando la terra), ma si attiva soltanto all’interno di una riflessione dell’uomo adulto a proposito del lavoro: la stessa dignità racchiusa nella vanga (lo strumento di lavoro paterno) si riflette nella penna che sta in mano all’autore, la cui duplice evocazione, iniziale e conclusiva, racchiude la riflessione e la poesia intera.
Questa l’iniziale dichiarazione d’intenti del giovane (all’epoca) Seamus Heaney: con la sua penna, il poeta non dice affatto che scriverà, ma afferma anzi: «I’ll dig with it»: scaverà con essa, proseguendo lo strenuo lavoro dei genitori, alla ricerca di verità e “radici”, altrettanto vitali anche se per il momento solo metaforiche.
Il tentativo di affondare la penna fino alle radici, però, non si può dire semplicemente concluso in questa prima opera: è vero, infatti, che una tale profonda ricerca continua anche nelle poesie degli anni successivi. Ciò risulta ulteriormente chiaro leggendo Personal Helicon, la poesia conclusiva, che contiene in forma diversa le stesse promesse che l’autore fa all’inizio. Di nuovo, la scintilla poetica scaturisce da memorie d’infanzia: «As a child, they could not keep me from wells / And old pumps with buckets and windlasse».
La poesia procede nel ricordo e nella descrizione dei pozzi, da cui l’Heaney bambino non riesce a stare lontano, per concludersi con un prendere le distanze che riporta tutto nella dimensione del presente: «Now, to pry into roots, to finger slime, / To stare, big-eyed Narcissus, into some spring / Is beneath all adult dignity. I rhyme / To see myself, to set the darkness echoing». Quei giochi da bambini non si addicono più all’adulto: non ci si può sporcar le mani toccando il fango, alla ricerca di segreti nascosti nelle viscere di un vecchio pozzo. Resta però l’essenza di quel gioco, e il poeta usa adesso il verso per sondare l’oscurità: «[…] Rimo / per potermi vedere, per far riecheggiare il buio». La rima, come la penna in Digging, serve da strumento per esplorare una realtà sotterranea che interseca in sé le dimensioni del passato e del presente, e che ospita pertanto verità stabili e fisse.
Disponendo, per una tale intrigante ricerca, di strumenti, esperimenti e prove esclusivamente contingenti, non ci si può che attendere una indagine infinita, che pretende continue verifiche da cristallizzare in versi, fino ad assorbire la vita di chi la conduce. È una sorta di eterna lotta induttiva contro il vano, in cui solo la poesia risulta essere un’arma vincente e altrettanto eterna contro l’oblio (non a caso la penna è, nella poesia iniziale, «snug as a gun», “comoda come una pistola”). Ecco perché la poesia di Seamus Heaney sembra rincorrersi negli anni, sempre fedele a se stessa: il suo contenuto straborda costantemente, andando a riempire ciò che restava ancora vuoto.
Sentendo usare termini astratti (“eterna”, “oblio”) per descriverla, qualcuno potrebbe pensare a una poesia rarefatta e lontana. Tuttavia, ciò non potrebbe essere più distante dal vero: come si è visto, perfino la sua Elicona personale è sviluppata verso il basso, e la sua vocazione poetica non è data da pure sorgenti incontaminate, ma da acque limacciose di pozzo. Quella di Seamus Heaney è una poesia fortemente concreta, caratterizzata da un espressionismo notevole legato a terra, acqua, carne e sangue.
Il punto probabilmente più alto di espressione consiste nelle descrizioni: una larga parte delle poesie è dedicata proprio al momento descrittivo, poi spiegato da brevi riflessioni conclusive atte a illuminare il senso dei versi. Questo momento descrittivo è preciso nei termini e denso di corporeità. Nulla di ciò che è necessario viene censurato: ogni parola è perfettamente calcolata in modo da formare un mosaico comprensivo con le altre, sfruttando al massimo non solo la loro semantica, ma anche la loro fonetica intrinseca (attraverso allitterazioni e onomatopee), per creare un quadro completo.
Il tono assunto è sempre equilibrato, sobrio, di osservatore esterno ai fatti, anche quando tratta questioni strettamente personali. Tuttavia, l’irlandese sa all’occasione esprimere tutta la sua partecipazione in brevi e densissime osservazioni («A four foot box, a foot for every»: “Quattro piedi di bara, uno per ogni anno”, recita la poesia dedicata alla morte del fratello minore), o distribuirla equamente per l’intera lunghezza del testo (è il caso delle composizioni dedicate alla moglie Marie).
La forma più comune data alle composizioni è quella dello iambic pentameter, verso antico organizzato in coppie o singoli versi, formanti strofe di varia lunghezza, occasionalmente rimate: un metro classico (e insieme desueto), adatto a una voce classica nella sua pacatezza.
Proprio in pentametri giambici non rimati è scritta Morte di un naturalista, la poesia che presta il titolo alla raccolta intera. Essa salta all’occhio non solo per questo fatto: è anche una delle poche poesie all’interno dell’opera ad offrire un tono apertamente comico. Si tratta sostanzialmente del racconto, simile a un incubo, di un episodio che segna profondamente la vita di Heaney: il giovane protagonista è solito raccogliere, nella fossa dove macera il lino, le uova di rana, per poi osservarne il ciclo di trasformazione in girini, con grande soddisfazione della sua insegnante. Un naturalista in erba, insomma; questo finché, «un giorno di calura», non si avventura oltre la siepe fino alla fossa, attirato da un forte gracidio. Uno sconfinato raduno di rospi e rane lo accoglie, terrorizzandolo; il bambino fugge in preda alla nausea: «[…] I grandi re della melma / si erano radunati lì per vendicarsi, e sapevo / che se avessi immerso la mano le uova me l’avrebbero afferrata».
Viene spontaneo chiedersi perché proprio questa curiosa poesia dia nome al libro. Apparentemente quasi un unicum, sembra avere invece molto da svelare, tanto nel titolo stesso quanto nella sua comicità. “Morte di un naturalista” indica la fine di un modo di vedere il mondo. Eppure molte poesie successive sono dedicate all’osservazione naturale (ad esempio Trota, Mucca gravida, Cascata): la natura continua ad essere studiata rigorosamente anche dopo questa poesia. Forse, ciò che Heaney perde alla fossa del lino è semplicemente la vocazione scientifica, che non lascia spazio all’emotività (né tanto meno ai conati di vomito di fronte ai rospi).
Questa ipotesi è sostenuta anche dalla posizione che la poesia occupa nell’opera: essa è seconda, dopo Digging (in cui il poeta afferma la sua vocazione letteraria), quasi a spiegare il perché della scelta poetica come professione, piuttosto che un’altra occupazione. La risposta a questa domanda è: perché i rospi mi schifavano. La comicità che ne emerge ci riporta al tono di Death of a naturalist.
In fin dei conti, Morte di un naturalista è più importante proprio perché quel suo particolare tono ci informa su come la poesia di Seamus Heaney debba essere letta e su come il poeta suggerisca di affrontare, anche nei loro anfratti più bui, il mondo e l’esistenza: con grande serietà e attenzione, sempre, però, accompagnate dal velo di un sorriso soddisfatto della vita e della propria genuinità. Questa l’unica, ma confortante, nostra difesa contro il nulla; Seamus Heaney ce la fa scorrere davanti in 118 pagine, regalandoci lampi di gioia, spesso folgoranti.
Emiliano Cavaliere Seamus Heaney
(www.excursus.org, anno VI, n. 64, novembre 2014) Seamus Heaney