di ALICE TORREGGIANI – « Guarda i campi che si perdono fin verso l’orizzonte lucido e infinito, lo sa che là in fondo ci sono le montagne, lo sa che da qualche parte la pianura finisce, lo sa ma non gli sembra vero, gli sembra che quella pianura, il giallo dei campi, il verde del foraggio, il marrone della terra disossata, sia tutto quello che ha, sia, in fin dei conti, quello che è». Che l’ambientazione e il paesaggio emiliani siano un elemento significativo, o addirittura fondante, all’interno di A misura d’uomo di Roberto Camurri (NN Editore, pp. 168, € 16,00) è cosa evidente sin dalle primissime pagine.
Non esiste soluzione di continuità tra i luoghi fisici ‒ la pianura, i campi, la nebbia, i fossi ‒ e i personaggi e la loro storia. Così la campagna piatta e sempre uguale diventa metafora di una vita altrettanto piatta e priva di obiettivi, significati, tanto che è necessario allontanarsi per ritrovare la giusta prospettiva delle cose. Roberto Camurri
E la neve si fa simbolo delle difficoltà della vita, delle battaglie della quotidianità, della lotta per la sopravvivenza. È un’ambientazione estremamente specifica, quella della provincia reggiana, eppure assume a tratti anche un valore straordinariamente universale, così come le vite dei tre protagonisti ‒ Anela, Davide e Valerio ‒ e delle persone che gravitano loro attorno. Come se la malinconia e l’irrequietezza che li accompagnano, così come il paesaggio che li circonda, abbiano una valenza di molto superiore a quella della singola vicenda umana, ma siano qualcosa che accomuna tutti in modo inevitabile. Roberto Camurri
Al paesaggio si sposa benissimo un linguaggio fatto di frasi brevi, spezzate, elenchi, punteggiatura fitta, come singulti che faticano a uscire dalla bocca dei personaggi, che parlano poco, quasi niente.Il silenzio attutito della nebbia e della neve rispecchia una mancanza di comunicazione verbale tra gli attori in scena, che si esprimono quasi esclusivamente attraverso i gesti, le azioni, lasciando alla parola un ruolo marginale. Nonostante questo la lingua è delicata, fin musicale. Calibrata. L’uso di tempi verbali insoliti, come il trapassato prossimo, dà alla narrazione un andamento scandito, ritmato, nostalgico. È il tempo del parlato, del racconto orale, del ricordo.
Sorprende come un libro così povero di interazioni verbali sia al tempo stesso così denso di relazioni umane, sulle quali completamente si costruisce e regge. Relazioni di coppia, soprattutto, d’amore. Di diversi tipi di amore:passionale, infelice, sereno, tragicamente concluso, sopito e poi riesumato, mai espresso, insicuro, distratto.
Ciò che in tutti i casi colpisce però è il realismo con cui il rapporto viene descritto e, nonostante questo, la contemporanea idealizzazione che i personaggi attuano dell’amato. Come se l’affetto rendesse le persone perfette anche nella loro dimensione più quotidiana e umana. Perfette anche nei difetti e nei tormenti che ognuno di loro porta con sé. Tutti sembrano infatti perseguitati da un qualche tipo di senso di colpa irrisolto o di rimpianto, che li porta a faticare nel trovare il proprio posto nel mondo e a dare una direzione alla propria vita. Nonostante questo, essi non sono mai portati a giudizio davanti agli occhi del lettore, che è partecipe del loro smarrimento.
Le relazioni tra i personaggi sono anche di tipo intergenerazionale, il cui fulcro di incontro è il bar del paese e in cui appare evidente la contrapposizione tra vecchiaia e gioventù: una fatta di perdita, abitudini, attese vuote di aspettativa; l’altra fatta di speranze, cambiamenti e attese piene, scalpitanti. Vi è uno sguardo innocente su una generazione ‒ quella dell’autore ‒ che ha ancora i piedi nel passato ma che è già proiettata nel futuro, e che deve fare i conti con questa sua posizione intermedia, a cavallo dei tempi.
È anche quella che più si fa carico, per questa ragione, del passaggio di testimone, del ruolo di ponte tra età, mentalità e stili di vita. Il capitolo forse più emblematico da questo punto di vista è quello centrale, Neve, in cui il romanzo raggiunge il suo apice, sia narrativamente che qualitativamente. Questa transizione qui emerge lampante nel rapporto tra Valerio e Giuseppe, l’anziano signore di cui si occupa.«Valerio era rimasto a guardarlo mentre teneva gli occhi chiusi, appoggiato allo schienale, la testa pelata e la pelle macchiata, flaccida sotto il mento e rugosa. Valerio aveva voglia di accarezzarlo, di lavargli la faccia, di tamponargli la pelle e tamponargli le sofferenze, sapeva di fare un cosa buona, ma aveva voglia di chiedergli scusa». Roberto Camurri
Neve è anche il capitolo che affronta il tema del sacrificio e della memoria, in ottica antifascista, e pone interrogativi piuttosto forti. Sul perché i sacrifici del passato siano stati utili e necessari. Su come la memoria, già precaria, sarà portata avanti dalle nuove generazioni e su che ruolo ricoprirà. Su come spesso ogni sforzo sembri privo di senso. Su che tipo di futuro ci attende. Interrogativi che rimangono aperti e in cui risuona irrimediabilmente l’eco dell’attualità del nostro mondo. Un mondo che spesso spinge i giovani ad allontanarsi, a fuggire per cercare risposte, o magari altre domande, un motivo, un senso, o semplicemente qualcosa di migliore. A tal proposito, il libro si apre e chiude con una fuga al mare. Il mare che è sollievo, pace, speranza, pausa, sospensione. Aiuta a fare i conti con l’età adulta, con i problemi di una vita che lascia insoddisfatti, soffoca, tradisce, ferisce.
A misura d’uomo di Roberto Camurri è un libro che mantiene ciò che promette nel titolo. Parla di vite qualsiasi, che però sono quelle di tutti. Di un mondo perduto a cui non si presta quasi più attenzione. Delle sfumature che esistono tra le persone, i sentimenti, tra il bene e il male, tra il giusto e lo sbagliato, tra l’essere ragazzi e l’essere adulti. Perché è lì che ci sono le storie.
Alice Torreggiani Roberto Camurri
(www.excursus.org, anno XI, n. 91, marzo-aprile 2019) Roberto Camurri