di ALESSIA PERETTA – Dopo le poesie Zancle e Tremotum e la silloge Versificare invernale, Giuseppe Finocchio torna con il suo ultimo lavoro: Il mare vetrato (Prefazione di Maria Gerace, Pungitopo, pp. 88, € 10,00). Suo maggior merito: essere riuscito a ritagliarsi una propria identità forte all’interno di un filone che affonda le radici fino agli albori di un’antica e illustre tradizione: quella del canzoniere d’amore, e nello specifico dell’amore coniugato con la sua controparte del dolore e della sofferenza.
Lo ha fatto sovrapponendo la sua voce a quella del mare, il Mediterraneo della sua Messina che, come dice lo stesso autore, «dà adito alla parola, permane e pervade il testo in ogni suo elemento» [1], amplificando come un’immensa cassa di risonanza l’interiorità del poeta. Il sentimento che lo avvince, come il perpetuo avanzare e ritirarsi di onde e maree, impone la sua legge severa e senza scampo.
Cosicché l’io risulta costretto nell’orizzonte esclusivo di un tu egocentrico e narciso, fortissimo tanto nella sua fragilità quanto nell’esercizio del suo potere seduttivo che imbriglia l’amante nella malìa di lacci invisibili quanto, suo malgrado, indissolubili: «Nelle mie intenzioni ho smesso di amarti / fiaccato dalla rema respinta di tenaci silenzi. / Ma nella mia testa il ricordo palpita / e risuona ancora…». Quella della memoria è la dimensione in cui s’inscena buona parte di questa altalenante eppure totalizzante vicenda amorosa, scandita dal capriccioso andirivieni di lei nella vita di lui, sia esso reale o fatto di sogni e visioni notturne.
All’interno dello spazio silenzioso e protetto della notte, il poeta risorge dalle ceneri la sua araba fenice, ritrovando intatto nel ridestarsi vigoroso dei sensi quello che il cuore ha perduto: «Mi sveglia [il ricordo] nella nuvola notturna dei sogni, / nella risposta dei sensi / e mi lascia così, / come un paio d’ali senza bussola, con le piume ferite, / mentre le tue labbra sono una sensazione / della memoria, ancora umida».
Nel ricordo Giuseppe Finocchio sembra trovare la dimensione a lui più congeniale, individuando proprio nella forza quasi concretizzante della rievocazione la cifra stilistica più peculiare della sua ispirazione. I sensi, infatti, non solo innescano il meccanismo della memoria («Voliera, / un vibrìo uditivo / apre varchi nel pensiero…») ma lo sostengono in tutta la sua durata e, letteralmente, lo incarnano, poiché la rievocazione non è appannaggio esclusivo del pensiero: tutto il corpo vi è coinvolto in modo attivo.
Ne deriva il ricorso a un fitto alfabeto di sensazioni, quasi che potere della poesia fosse fermare e trattenere, recuperare e rivitalizzare in una peculiarissima resurrezione della carne quanto è vittima del tempo e della volubilità di un sentimento incostante e imprevedibile. Non a caso, le parole sono dette «grevi di sentire»; «la parola segue l’assaporamento» per restituirlo, diremmo, così com’era; per concedere l’illusione del bis. Poesia e Sentire, dunque, sono tutt’uno. A riprova di ciò, dell’importanza assegnata alla sensorialità, nel suo Vigorìo di note (seconda introduzione in versi) Finocchio le conferisce l’onore della maiuscola: «Si muove la Poesia / esplode nel gorgoglio intenso / e denso / di parole immaginate / e diventa alba di un nuovo / audace / abbacinante / Sentore. // Sentire».
Si tratta di una fondamentale dichiarazione di poetica, di cui si trova diretto riscontro nella veste linguistica e formale dell’opera, per intessere la quale il poeta non manca di far propria la lezione di maestri quali il Pascoli più impressionista (pensiamo ad esempio ai numerosi frequentativi in -ìo e i loro paralleli verbali in -eggiare) e lo scabro Montale degli Ossi. Giuseppe Finocchio seleziona così i colori opachi e “sporchi” della terra (rossastro, giallastro,biancastro, ecc.), linee nette e vividi giochi di chiaroscuro, per poi screziarli con i riflessi e i baluginii derivanti dalla superficie smerigliata del mare. Il paesaggio (reale sì, ma anche e soprattutto interiore) è animato di tremolii e palpiti, e l’aria è satura di aromi.
Per il tessuto fonico, il poeta predilige sonorità dense (la frequente uscita in -gli è, ad esempio, spiccatamente montaliana), che poi scompone e dissemina nel testo, moltiplicando esponenzialmente l’energia e la sensualità delle scelte lessicali, anch’esse improntate a una vigorosa fisicità. Il raffinato intreccio di sinestesie e di metafore rimescola poi le sensazioni in un cangiante gioco di combinazioni, conferendo anche alle emozioni più ineffabili e sfuggenti una perspicuità quasi tattile («la notte inghiotte tra i denti / la passione che gorgoglia / un fiotto / un rivolo malinconico / scioglie le tenaglie / delle distanze»).
Il motivo centrale e assorbente della percezione, così indissolubilmente legato allo scenario dello Stretto, non solo fornisce tutti gli elementi indispensabili per realizzare la poetica dei sensi sopra descritta, ma disegna una personale cartografia della relazione fra l’io e il tu, di cui il mare e il suo paesaggio si pongono come riferimenti simbolici irrinunciabili. Il mare, innanzitutto, è paesaggio reale e sfondo della vicenda emotiva, ma anche specchio e interlocutore dell’io: ne risveglia i sensi e la memoria («La sabbia seppellisce segreti / che l’onda tremula / restituisce / amara / vivida / alla vita»), per poi sciacquarli via («L’ombra del tuo corpo scosso sulla mia schiena / ha l’aspetto di un’ombra spazzata via dalla marea»); si offre a metafora di una passione sconvolgente («che gorgoglia») e sempre ritornante («scandisce il volteggiare / di risacche emotive»), e al contempo a promessa di un riparo («come la difesa che potrebbe salvarmi dal tuo fascino / accolgo la marea»). Davanti al mare, inoltre, l’io riscopre quella dimensione di essenzialità («siamo come nudi dentro / davanti all’afflato del mare») su cui la sua identità di poeta troverà fondamento [2].
In dialettica continua con la sfera acquatica si pone una parte del paesaggio che ha a che vedere con l’entroterra: un polo terrestre in cui di preferenza si muove il tu. Ad esso si legano infatti metafore come la collina («mentre i miei dardi […] / sono piegati / dalla collina della tua indifferenza») e la vigna («I tuoi occhi come spietati pampini rubicondi / si schiudono / quietamente inquietanti»), abilmente volte a significare una sensualità magnetica e crudele. Ma più che la terra, è l’elemento del fuoco che le pertiene, e della luce ad altissima intensità. La presenza della figura femminile, sia essa reale o solo immaginata, illumina infatti la notte a giorno («Ed il tuo ricordo, come un pomeriggio / improvvisamente assolato, / risuona ancora nella piacevolezza») connotandosi apparentemente a elemento positivo e vitale. A ben vedere però, l’aura di luminosità che la circonda si converte sin troppo facilmente in lessico incendiario, poiché non solo accende una passione ardente (che come abbiamo visto lievita, per così dire, nel ribollio e nel gorgoglio) ma si fa arsura, brucia, ferisce e squarcia: «Il tuo sguardo è un fiotto di luce che sa ferirmi dolcemente». Cosicché l’area semantica del fulgore, e quella più spiccatamente espressionista del sangue, della ferita e del taglio, entrano spesso e volentieri in cortocircuito.
A che vale dunque stendere le proprie braccia per cingere e stringere, rimanere «avvinghiati» dispensando «carezze come rami annodati»? A che vale «mescolarsi l’umore, il sangue, insieme alle parole»? Giuseppe Finocchio sa che tutto questo è un’illusione: infatti, nella vita quanto sulla pagina scritta, l’onda arriva sistematicamente a spazzare via l’ombra di lei e un’alba sabotatrice di illusioni viene sempre a scalzare la notte in un perpetuo inesorabile avvicendamento. Eppure questo è l’unico modo che il poeta conosce per vivere, e con cui, nonostante tutto, è riuscito a conquistarsi il suo personale angolo di felicità. Così, con una nota di elegante e malinconica leggerezza, si commiata dai suoi lettori:
«Datemi una penna, un foglio,
lasciatemi veleggiare liberamente
nel mare delle emozioni ambrate,
permettetemi ancora di amare perdutamente,
non conosco altro modo…
e sarò felice».
Alessia Peretta
NOTE BIBLIOGRAFICHE
[1] – Intervista a GIUSEPPE FINOCCHIO, www.messinaweb.tv, 11 maggio 2014.
[2] – Cfr. «Versi sciolti, / poetare scalzo / […] / poetare glabro», Poetare scalzo (prima introduzione in versi) con le parole di Montale: «Avrei voluto essere scabro ed essenziale / siccome i ciottoli che tu volvi, / mangiati dalla salsedine» (Ossi di seppia, Mediterraneo, VII). giuseppe finocchio
(www.excursus.org, anno VI, n. 63, ottobre 2014) giuseppe finocchio