di ANDREA F. FRANZINI – «Come / i primi boccioli / bucano la neve / così / ritorna e / sorprende l’amore…». In un componimento della raccolta Lievi umane imperfezioni (Edizioni Akkuaria, pp. 70, € 12,00) la poesia viene descritta come il distillato delle essenze dei casi della vita. Così Beatrice Gradassa mette a nudo l’anima di stagioni, eventi atmosferici, dimensioni e sentimenti tutti al servizio di stati d’animo messi alla prova e allo specchio.
L’autrice presenta un inverno bucato da boccioli, che inzuppa la casa, prossimo ad invadere una valle che lo aspetta mentre brilla in un sole novembrino. Il linguaggio con cui questo avviene evoca immagini spigolose senza mai perdere il lirismo che lo contraddistingue. È questa l’abilità che permette all’estate di diventare l’occasione perché, da formica, si possa smettere di raccogliere briciole d’amore invernali.
La Gradassa mostra tutte le sfumature dell’amore, grande protagonista della raccolta: esso è una vita in grembo, un suono sussurrato velocemente nel buio, un «ti amo» mai detto ma osato in sogno. Vengono dipinti sulla pagina quadri contraddittori e personalissimi quasi a levare in un unico candido stile voci completamente diverse: dalla pioggia che accende Roma di lampi e tuoni al dono d’amore di grani di sabbia «racchiusi al caldo tra i palmi delle mani».
Dimostrazione di questo particolare modo d’espressione è l’effetto e il ruolo della solitudine nelle tante vite dell’autrice. Nonostante l’amore sia descritto come la parte migliore, la parte mancante di ogni essere completo, alla solitudine non si soccombe, né questa imprigiona. Con un’altra voce infatti essa è raccontata non come l’essere soli, ma come l’essere circondati da se stessi. Da qui, il legame con la notte, momento di raccolta per eccellenza mentre la luna, coccola d’arancia, «mi guarda e insieme a me il Mondo»; il senso di appartenenza ad esso scrutando il firmamento e la connessione profonda fra notte e fantasia, dal momento che «il dono del pensar sognante dura soltanto il tempo del riposo del mondo».
Una dimensione, quella del tempo, narrata con una polivalenza altrettanto marcata: esso tace ignaro del dolore provocato, si fa attesa d’estate nella ricerca d’amore, godimento durante la danza del piacere, eccezionale metafora del rapporto sessuale. La poetessa, infatti, descrive il sesso in modo tanto esplicito e languido da creare un distacco netto fra questi racconti e le descrizioni di un incontro d’amore. Il ripetuto colare di emozioni, il legare, mordere, stringere offrono uno scenario tutt’altro che ingenuo che lascia all’immaginazione poco del romanticismo sigillato dai sentimenti espressi più e più volte con il «ti amo» dell’uomo «che ho accanto», cantato in Per non farci male.
Come ogni sentimento, tutto si mescola con la natura circostante: un filo di voce, un sussurro d’aria, un sussulto d’acqua, un alone di luce sono i quattro elementi che in questi versi si fondono all’autrice e al lettore dando ad ogni cosa la sua importanza. Le mille lucciole attorno alla casa, una virgola di luna, la propria parte di stelle compaiono a disegnare Sogni d’incanto; grappoli di glicine, un seme che germoglia e un uccellino sulla ringhiera; una chioma d’argento, la sua corona di foglie con arpioni di spine. Grazie a queste immagini, l’atmosfera è sempre nuova e mai deludente. La Gradassa non si perde nella poetica sfrenata, ma nella frivola rugiada e nei rapidi bagliori di una poesia misurata che non dimentica la realtà, anzi! Celebra il fratello, Sara, Chicca, mentre aspetta l’uomo e l’ometto di ritorno a casa.
Affronta il tema della vecchiaia proponendo orizzonti paralleli quasi suggerisse al lettore che, sulla base delle scelte compiute nel proprio percorso di vita, gli si prospetterà un’anzianità differente. Una maturità che può donare il ricordo di una vita racchiusa «nelle pieghe delle mani» e consumata come goccia misteriosa. La vita però «(questa) non ritorna» e in questo avviso sembra contenuto tutto il rischio di un momento drammatico: contate le grinze di una pelle scavata da sole e sale, si avrà realmente vissuto? La poetessa non conosce limiti: come la vecchiaia, prende di petto le tematiche della ricerca, del silenzio e del simbolico rapporto tra sacralità e natura.
Nella poesia Cerco viene descritto una ricerca che sembra lasciare spazio alla fatalità, «quale sarà mi chiedo», ma senza rassegnazione. La volontà della protagonista che cerca «la scintilla che mi farà brillare gli occhi di nuovo» accende infatti quella stessa fatalità con la sfumatura del destino più che del caso. Il momento del silenzio, in concordanza con il ruolo attribuito alla solitudine, va ben oltre la semplice assenza delle parole: appare intriso di emozioni e forse timore quando si affaccia l’idea che mentre si ama per la prima volta «ti lascio andare via in silenzio?…».
Non solo: un momento, se passato in silenzio, consente l’evolversi di mille eventi, «s’arresta il respiro / si ferma il tempo», le lacrime riempiono gli occhi mentre volti, polvere, macerie invadono il cuore. Un esempio eccellente, che riassume argomenti e sensibilità dell’autrice, è Questo nuovo giorno in cui si fondono la natura del canto alla luna e la sacralità del saluto agli Angeli con un’armonia che nulla ha a che fare con l’asprezza della dicotomia sacro-profano. Nell’atmosfera eterea però l’invito a Sara a condividere quelle esperienze riporta con passo gentile alla realtà.
Ed è proprio questo il segreto di Lievi umane imperfezioni: le piccole cose, i piccoli gesti in cui cogliere la felicità che riempie il cuore, scalda l’anima e regala lo stupore di un sorriso. Perché in questo è racchiuso «il meraviglioso senso della vita, visibile e innegabile nel «ritorno / di una rosa / prima rossa / poi rosa / dopo rossa / e ancora rosa».
Andrea Francesca Franzini
(www.excursus.org, anno VII, n. 69, aprile 2015)