di CARLA MAISTRELLO – Bologna, febbraio 1881. La colta e delicata Carolina Cristofori Piva (Mantova, 1837), meglio conosciuta come la Lina (o Lidia) delle Odi barbare cantata da Giosuè Carducci, con cui ebbe una lunga relazione epistolare e sentimentale, era malata da tempo. Si spense nel palazzo Spada in via Mazzini, a pochi passi da Giosuè, assistita dal poeta e attorniata dai numerosi figli.
Carolina sposò il generale garibaldino Domenico Piva (Rovigo, 1826-1907), che seguì nelle varie città in cui fu in servizio, principalmente in Sicilia, dove partecipò alla repressione contro il brigantaggio. Ebbero sei figli: Guido (Palermo, 1864), Edoardo, deputato (Palermo, 1868), Abele (Mantova, 1869), Vittorio, giornalista socialista (Belgirate Como, 1875), Gino, poeta anch’egli giornalista socialista e inviato per il Resto del Carlino sul fronte della Grande Guerra (Milano, 1873), e infine Lidia (1877).
A trentasette anni Giosuè s’imbatté in Carolina, nell’aprile del 1872 al caffè di Bologna, e fu colpo di fulmine. Entrambi sposati, poco dopo si incontrarono clandestinamente a Milano. Il poeta rimase stregato da una donna non bella ma affascinante, intrigante. La seguì nei suoi continui spostamenti, ne fu geloso, temette di perderla e, da questa passione, più scritta che vissuta, nacque un lungo epistolario (che consta di 578 lettere), forse uno dei più interessanti dell’Ottocento sia per l’intensità, sia dal punto di vista letterario. A Giosuè, che le restò accanto in quel penoso momento, Carolina rese le lettere ch’egli le aveva scritto ricordando i bei momenti, i luoghi trascorsi insieme, la stazione di Bologna, quella fredda mattina di novembre…
Le lettere di Carducci a Lina sono state recuperate e ripubblicate, con la curatela di Guido Davico Bonini, da Salerno Editrice nel 2010, col titolo Il leone e la pantera. Lettere d’amore a Lidia (1872-1878). Secondo Bonini alcune di queste missive contengono espressioni che confermerebbero che Gino Piva è figlio naturale di Carducci, nato appunto da questa relazione clandestina. Giosuè scelse il luogo dell’ultimo riposo di Lina e, assieme al generale, l’accompagnò alla Certosa dove il suo sepolcro, con l’iscrizione da lui dettata, è ubicato nella Loggia del Colombario.
Dopo la morte di Carolina, il generale si trasferì a Rovigo, sua città natale, portando con sé i figli. Qui, dopo aver già partecipato ai moti rivoluzionari del 1848, infiammato dal desiderio di libertà e da grandi ideali, prese parte alle rivolte anti-austriache e partì per combattere a fianco dell’esercito piemontese, in difesa della causa italiana, nella guerra del 1859-60. Con l’annessione del Veneto all’Italia, avvenuta nel 1866 – anno in cui si unì a Giuseppe Garibaldi, dopo averlo conosciuto a Bologna – fu tra coloro che si distinsero come protagonisti del Risorgimento e che ricevettero importanti cariche civili. Un altorilievo bronzeo posto nel sacrario di Calatafimi lo ritrae tra i Mille, il suo monumento è presente nell’atrio dell’ex corpo di guardia nella sua città natale, e un busto onorario si trova a Roma, sul Gianicolo, vicino al monumento dedicato a Garibaldi.
Rovigo, febbraio 1898. In una giornata nebbiosa e piovosa, dopo lungo tormento e penosa malattia, si spegneva Lidia Piva, a soli ventuno anni. Il padre, Domenico Piva, pianse a lungo quell’ultima giovane figlia. Lidia compì studi classici regolari ed era prossima alla laurea in Lettere; come la madre e il fratello Gino, amava scrivere versi. Lasciò un piccolo volume, poco conosciuto, contenente diciotto poesie, dedicate a vari conoscenti (una anche a Gino), che s’intitola Rime Postume (Prefazione di Gemma Dolores Cenzatti, Stab. Tip. “Antonio Minelli”, Rovigo, 1898, pp. 114). In questi componimenti, scritti tra il 1 febbraio 1894 e il 15 marzo 1897, Lidia espresse un disperato bisogno di piangere provocato dal tormento del male e, probabilmente, dalla mancanza della madre, conosciuta solo attraverso i ricordi e i racconti di suo padre, dei fratelli, delle tante persone che l’avevano conosciuta.
Lidia non amava la nebbia, il silenzio, il freddo che grava d’intorno; sognava di fuggire su una nave cullata dal mare, verso lidi fiorenti e soleggiati, palme e mistici templi, sereni tramonti e candide aurore. Forse provava nostalgia, consolazione e gioia nel desiderare ripercorrere quelle lontane e ridenti terre siciliane vissute da sua madre nella prima giovinezza? Nel poter odorare le stesse essenze arcane? Avrebbe voluto poter scrivere poesie sferzanti, come quelle di suo fratello, «scotere» il profondo sonno dei noncuranti, dichiarare la sua febbre d’amore vero. Ma si sentiva impotente. Pietosa e amabile con i sofferenti, solidale con le donne infelici, con i lavoratori che non chiedono agi ma certezze, speranzosi di un cambiamento.
«Io vado tra color che il mondo sprezza,
o calpesta o deride,
vado dove l’amore non sorride,
tra il pianto, tra il dolore e la tristezza.
[…] amo i reietti e tristi abbandonati […].
Le lor vesti sdruscite, i lor brandelli
no, non mi fan paura:
anch’io vado con loro alla ventura,
[…] io resto tra i ribelli»
(Passano i ribelli, 9 giugno 1895).
Carla Maistrello
(www.excursus.org, anno VII, n. 69, aprile 2015)