di SOFIA SIMONCELLI – L’ibisco viola (traduzione di Maria Giuseppina Cavallo, Einaudi, pp. 288, € 12,00), opera esordiente di Chimamanda Ngozi Adichie, racconta degli effetti del colonialismo britannico in Nigeria attraverso la voce di Kambili, quindicenne protagonista, che assiste alla progressiva disgregazione della sua famiglia nel periodo delle lotte contro il governo militarista locale.
Con questo libro l’autrice africana si aggiudica nel 2005 il Commonwealth Writers’ Prize per la categoria “First Best Book” ed entra a far parte di quella letteratura che oggi viene chiamata, non senza dibattito, “postcoloniale”.
Mette nero su bianco un pezzo di storia della sua terra d’origine che l’Occidente non conosce, dando voce ai colonizzati e rovesciando i presupposti con cui siamo abituati ad analizzare la realtà. Adichie stessa ha spiegato uno dei risultati del fenomeno del colonialismo: «Inizia la storia con le frecce dei nativi americani, e non con l’arrivo dei britannici, e avrai una storia totalmente diversa. Inizia la storia con il fallimento dello stato africano, e non con la creazione colonialista dello stato africano, e avrai una storia totalmente diversa» [1]. È vero, la Nigeria vive situazioni di conflitto, ma dove risiedono le cause?
Una parte di responsabilità è da attribuire indubbiamente anche al processo di colonizzazione che, estirpando le radici culturali e religiose di un popolo a favore di un modello occidentale “civilizzato”, ha dato origine a fratture sociali e spirituali che hanno, ancora oggi, ripercussioni sul singolo individuo.
Un “post-”, dunque, che riguarda non solo la cronologia storica ma anche l’intelletto e l’ideologia. Adichie propone una storia di “decolonizzazione della mente”, affinché sia i giovani che gli adulti gravitanti nell’universo Kambili prendano coscienza di sé come individui in grado di autodeterminare il proprio futuro: Jaja, Kambili e la loro mamma si emancipano da papà Eugene e imparano a vivere in armonia e tolleranza, oltre i freni della paura, proprio come la Nigeria sta imparando – in quel momento – a camminare sulle proprie gambe senza l’ombra britannica.
Kambili ha una famiglia benestante e all’apparenza felice: va d’accordo con il fratello maggiore, Jaja, frequenta la migliore scuola di Enugu, ha una tv satellitare e un autista privato. Agli occhi della comunità, suo padre Eugene – educato in un istituto cattolico da missionari britannici – è un generoso uomo di affari, un credente e un temerario combattente per la democrazia. Tuttavia per Kambili, sua madre e suo fratello le mura domestiche si rivelano una prigione dorata, perché è lì che Eugene mostra la sua natura di fondamentalista religioso, padre-padrone e marito violento. «Mamma era accasciata sulla sua [di Eugene, Ndr] spalla come un sacco di juta […] “C’è del sangue sul pavimento” disse Jaja».
La vita di Kambili e Jaja si modella sugli standard di fede, disciplina ed eccellenza scolastica imposti dal padre e le loro giornate sono scandite da una tabella di marcia incontestabile. Nel momento in cui le aspettative vengono disattese, entrambi subiscono punizioni corporali. Kambili cresce ricercando ossessivamente l’approvazione e il compiacimento paterni, tendenza che emerge soprattutto nel parlare della fede cattolica, combustibile principale degli scoppi d’ira di Eugene.
«“Perché Papa-Nkukwu è un pagano”. Papà sarebbe stato orgoglioso della mia risposta. “Vostro Papa-Nnukwu non è un pagano, Kambili, è un tradizionalista” disse zia Ifeoma. Io la fissai. Pagano, tradizionalista, che importanza aveva? Non era cattolico, tutto qui; non era della nostra fede». Tutto cambia quando zia Ifeoma fa il suo ingresso nella vita dei due ragazzi. Professoressa universitaria e madre single di tre figli, Ifeoma vive più umilmente rispetto alla famiglia di suo fratello, ma a testa alta. Abita nella città universitaria di Nsukka e aspira a trasferirsi in America per poter avere un lavoro retribuito come lettrice accademica. Una volta compresa la situazione famigliare di Kambili e Jaja, decide di volerli allontanare dall’oppressione paterna e convince Eugene a lasciare che trascorrano un po’ di tempo con lei.
I due fratelli scopriranno una realtà completamente diversa: in casa della zia si respira un’aria di allegria, condivisione e tolleranza religiosa. Possono stare nella stessa stanza di un “pagano”, ovvero il nonno tradizionalista che Eugene aveva sempre impedito loro di conoscere, cantano canzoni Igbo, la lingua della loro etnia, e a tavola non fanno interminabili preghiere o rigidi convenevoli, bensì parlano del più e del meno. È un periodo breve, ma sufficiente per capire che c’è la possibilità di vivere in pace e armonia in famiglia, nella natura e nella spiritualità: non per forza i fiori di ibisco sono bianchi o rossi, possono essere anche viola, se ci si impegna nel prendersi cura del processo di ibridazione.
Sperimenteranno l’amicizia, l’amore, il gioco, una sana spiritualità e conosceranno le proprie radici culturali,diverse da quelle che il padre Eugene aveva inculcato loro. Il momento della svolta avviene durante una messa in occasione di una Domenica delle Palme, quando Jaja rifiuta di partecipare al rito dell’eucarestia e si ribella alla dittatura domestica, portando a un finale dolceamaro, necessario per poter rinascere a una nuova vita. «La sfida di Jaja ora mi sembrava come l’ibisco viola sperimentale di zia Ifeoma: raro, con un sottofondo fragrante di libertà, un tipo di libertà diversa da quella che la folla aveva invocato a Government Square dopo il colpo di stato agitando rami verdi. Una libertà di essere, di fare».
L’intento dell’autrice è di andare oltre il mero stereotipo del padre-padrone o della condanna semplicistica della violenza domestica e fa una riflessione accorta sulle circostanze e sui personaggi. Il lettore si trova di fronte a una battaglia senza esclusione di colpi per il recupero della dignità umana, come indica il motto “To restore human dignity” [2] dell’Università di Nsukka, in cui escono vincitori coloro che imparano coraggiosamente la libertà del cuore, della mente e dello spirito.
L’ibisco viola è un esempio di empowerment, un appello al cambiamento e alla tolleranza rivolto non solo agli oppressori ma soprattutto agli oppressi, un richiamo universale che non si disperde nel mare delle generalizzazioni in quanto rivolto alla Kambili racchiusa dentro ciascuno. La lettura è scorrevole e semplice, ma non per questo facile. Si trattano tematiche delicate e impegnative, valide a livello universale ed estremamente attuali: rapporti famigliari, religione, condizione femminile e integrazione sono solo alcuni esempi.
La sfida della contaminazione culturale, intesa con accezione positiva, viene costantemente ricordata anche nelle scelte che riguardano il linguaggio, poiché l’autrice inserisce vari termini in Igbo, lingua locale di alcune zone della Nigeria (ciò non impedisce la comprensione dei dialoghi) ed evoca il folclore letterario africano inserendo favole della tradizione orale Igbo.
Un paio di curiosità in più: alcuni dei soggetti dell’opera si riferiscono a personaggi realmente esistenti, sia nel mondo della politica che della musica, e la prima riga del romanzo, «A casa tutto cominciò a crollare», è una citazione dell’opera Things fall apart di Chinua Achebe (edizioni e/o), scrittore nigeriano e modello d’ispirazione dell’autrice. Chimamanda Ngozi Adichie, avendo vissuto le difficoltà dell’ibridazione culturale sia in Nigeria che nel suo periodo di studi in America, abbatte le barriere geografiche e conoscitive, e scrive per chi vuole imparare un nuovo modo di leggere il mondo.
Sofia Simoncelli
NOTE BIBLIOGRAFICHE
[1] –http://www.ted.com/talks/chimamanda_adichie_the_danger_of_a_single_story/, ultima consultazione 17/11/2016.
[2] – Traduzione: “ripristinare la dignità umana”.
(www.excursus.org, anno VII, n. 72, ottobre-novembre 2015)