di FRANCESCA BERNI – Il mestiere dello scrittore non è certo cosa facile, men che meno raggiungerne lo status. Può accadere di ritrovarsi a dover presentare il proprio libro quindici minuti prima del fischio d’inizio di una partita mediamente importante come la semifinale Italia-Germania; può anche succedere di dover parlare della propria creatura letteraria a un gruppo di ubriachi o diventare la preda di un ammasso di pavoni infastiditi dalla tua voce.
E se capita che a presentare la tua opera sia un libraio che ne ha letto a malapena le prime cinque pagine e la quarta di copertina, beh, non è decisamente la tua serata fortunata. Questi sono solo alcuni dei tanti aneddoti che Gianluca Morozzi racconta ad Andrea Pazienza ne L’età dell’oro. La mia vita raccontata a Paz (Italica Edizioni, pp. 136, € 15,00).
Un’autobiografia ironica, nella quale si spoglia di ogni censura e confessa al fumettista bolognese tutti gli insuccessi che l’hanno portato a diventare un autore affermato. Ma perché scegliere proprio Paz come confessore? L’autore risponde a questa domanda con un aneddoto ambientato sul divano di Mister Campari, curioso personaggio conosciuto alla cerimonia di premiazione di un concorso letterario, dove Morozzi scopre per caso un’opera di Pazienza che ribalta completamente la sua opinione sulle capacità del fumettista. È proprio in seguito a questa rivelazione che decide di formulare la seguente promessa: «Paz. Tu hai vissuto a Bologna come me. Tu non ci sei più. Io sì. Io porterò la fiaccola al posto tuo, ché non lo puoi più fare. […] Io diventerò grande come te, o morirò provandoci!».
Spinto da questo proposito e dall’ultimatum dell’ingegner Giuseppe Morozzi, nonché suo padre, lascia la sua carriera fallimentare da scrittore di fantascienza per dedicarsi al suo primo “vero” romanzo. Grazie all’aiuto dei folletti sparaidee, curiosi spiriti che si aggirano per gli angoli di Bologna e suggeriscono intere opere ad autori emergenti, e della casa editrice Fernandel, finalmente Despero viene pubblicato. Da quel momento comincia l’odissea delle presentazioni nei luoghi più disparati d’Italia, alle quali Gianluca Morozzi dedica più pagine all’interno del romanzo, che condurranno il lettore verso uno stato d’animo a metà fra il divertito e l’incredulo, condito con fragorose risate che impediranno la lettura del libro in luoghi affollati.
Alla domanda «Ma chi cazzo me l’ha ordinato, a me, di fare lo scrittore?», Gianluca Morozzi risponde con quella che sarà poi la conclusione del libro: una moderna ed esilarante interpretazione di A Christmas Carol di Charles Dickens in cui la sua vecchia Saxo lo conduce in un viaggio nel tempo mostrandogli i vari finali delle sue vite parallele. Qui l’autore ricollega tutti gli elementi già accennati nel libro, dalle automobili possedute, alle fidanzate perse nel tempo e ai vari progetti lavorativi mai realizzati. Con questo tempo supplementare, Gianluca Morozzi, seppur in maniera comica, sembra voler chiudere un cerchio iniziato nelle prime pagine del libro con i suoi esordi giovanili e la vecchia, rumorosissima macchina da scrivere.
Questa conclusione, benché si svolga davanti alla porta del bagno di un treno, dà un senso di equilibrio e di soddisfazione, quasi come se quel cerchio l’avesse chiuso il lettore con le sue stesse mani. Gianluca Morozzi spazia da un genere all’altro con grande facilità, ottenendo brillanti risultati sia in romanzi noir come Cicatrici (Guanda) che nella narrativa più semplice e ironica di Bob Dylan spiegato a una fan di Madonna e dei Queen (Castelvecchi Editore).
Nonostante questo suo eclettismo, il tocco rimane inconfondibile. Leggere un suo libro è semplice proprio grazie al suo stile scorrevole e mai pesante; che tu stia per scoprire lo snodo dell’enigma che ti corrode da 300 pagine, sia che tu stia soffrendo per l’interminabile fila al concerto romano di Bruce Springsteen, la sensazione è sempre quella di poter divorare ancora migliaia di pagine e non essere comunque sazio.
Francesca Berni
(www.excursus.org, anno VII, n. 67, febbraio 2015)