di ALICE TORREGGIANI – «C’è troppa tensione nel cuore degli uomini, troppa animosità, troppa sete di vendetta. Guardiamo in fondo ai nostri cuori: che cosa vi troviamo? Una passione che il tempo ha soltanto attutito senza riuscire a estinguerne le braci».
Le braci di Sándor Márai (traduzione di Marinella D’Alessandro, Adelphi, pp. 184, € 10,00) è un romanzo dal titolo particolarmente evocativo, una metafora che viene svelata mano a mano che si procede con la lettura. Le braci sono antiche passioni mai morte, ma solo assopite in attesa di essere riattizzate e riportate ad ardere. Così quelle dei due protagonisti, amici d’infanzia legati da un rapporto quasi fraterno, indissolubile, ma anche vessato da questioni irrisolte, segreti e innegabili differenze, che creano tra loro una sorta di distanza invalicabile, di irrimediabile allontanamento.
Henrik, narratore in terza persona, fornisce il punto di vista attraverso cui il lettore viene a conoscenza degli eventi. Appartiene a una ricca famiglia nobile dell’Impero austro-ungarico e ha un’innata predisposizione per la vita militare. Egli brilla, infatti, nell’esercito e diventa generale, seguendo le orme del padre: in lui è forte il sentimento di lealtà per la patria e il senso del dovere. È un uomo disinvolto e dal fascino naturale, che partecipa con entusiasmo e spensieratezza alla vita mondana cui il suo status dà accesso, e che ha trovato in modo assolutamente spontaneo il proprio posto nel mondo. Al tempo stesso è però fragile e alla continua ricerca di affetto, come se la propria persona non gli fosse sufficiente, come se fosse incompleto.
Konrad, al contrario, è figlio di funzionari con difficoltà economiche, ma che risparmiano e si sacrificano per permettere al ragazzo di frequentare un prestigioso collegio militare a Vienna; studi per il quale lui non è portato né appassionato, ma che svolge come semplice dovere impostogli dalla famiglia. Il carattere determinato e solitario lo spinge a dedicarsi alla musica, arte per la quale mostra di avere uno straordinario talento e che è anche simbolo del suo isolamento dal resto del mondo militare, così lontano dalla sua sensibilità. Si dimostra subito diverso, speciale: Henrik ne è consapevole e lo ammira profondamente.
Dal canto suo, Konrad non può invece fare a meno di provare quell’involontaria superiorità che, secondo Sándor Márai, è naturale in ogni rapporto umano in cui una persona esercita una forma di potere sull’altra. E proprio questo Konrad fa, affascinando l’amico con il suo essere diverso da qualsiasi altra persona: esercita potere su di lui.
Il romanzo ha inizio ‒ in un’atmosfera assolutamente decadente ‒ con l’arrivo di Konrad in un castello ai piedi dei Carpazi, dove un Henrik ormai anziano vive completamente isolato dal mondo, sepolto nella sua dimora di ricordi e di domande rimaste irrisolte. È il 1940 e il musicista torna dopo quarantun anni trascorsi ai Tropici, terra mitica che lo ha accolto dopo la sua improvvisa e inspiegata fuga da Vienna e l’abbandono mai perdonato dell’amico. Il generale ‒ descritto come un malato prigioniero della propria infermità ‒ esce dal suo perenne torpore, come se di colpo avesse ritrovato uno scopo alla propria esistenza, e lo ospita a cena, ricreando nel dettaglio l’ultimo pasto consumato insieme prima della sua partenza. È una sorta di vendetta per il torto subito, ma anche la necessità di tornare a un momento passato e ottenere risposte mai avute.
Durante la cena, infatti, egli ripercorre le tappe del loro rapporto, riconoscendo, con più chiarezza a distanza di tempo, dettagli e momenti che hanno determinato l’evolversi dell’amicizia e la sua fine improvvisa. È lui il solo ad affrontare l’argomento, mentre Konrad è, come il lettore, attento testimone delle sue digressioni temporali e tematiche, che sono costellate di interrogativi lasciati in sospeso e a cui l’amico non accenna a rispondere.
Le poche parole che pronuncia sono infatti assolutamente vuote di significato: parla dei Tropici, a cui si afferra come ad un’àncora di salvezza, sia come espediente retorico per non rispondere alle domande di Henrik, sia come luogo fisico di espiazione in cui rifugiarsi con il desiderio di lasciarsi alle spalle il passato e pagare il prezzo dei propri peccati. Eppure, nonostante si mostri reticente a rivangare il passato, è tornato nel luogo in cui è cresciuto. È tornato perché non poteva fare diversamente, perché era inevitabile, come il generale non ha potuto fare a meno di aspettarlo per decenni, in modo da chiudere e dare un senso al passato: le loro vite sono state vissute in funzione di questo incontro, tese verso il momento in cui si sarebbero rivisti.
«Ma in fondo all’animo nascondevi un impulso spasmodico: il desiderio di essere diverso da quello che eri. È il tormento più crudele che il destino possa riservare a un uomo. Essere diversi da ciò che siamo, da tutto ciò che siamo, è il desiderio più nefasto che possa ardere in un cuore umano. Giacché l’unico modo per sopportare la vita è quello di rassegnarci a essere ciò che siamo ai nostri occhi e a quelli del mondo».
Sándor Márai lascia trasparire, sia implicitamente che esplicitamente attraverso le parole di Henrik, una visione assai pessimista e fatalista della vita e dell’uomo. Non ci si può liberare della propria natura e delle proprie inclinazioni: il destino assegnatoci deve essere assecondato. Tentare di cambiare se stessi non fa altro che peggiorare una vita già difficile. Bisogna accettare vizi e virtù, la superiorità intellettuale o morale degli altri e il fatto che alcuni sentimenti potrebbero non essere contraccambiati. Il generale ha seguito questa filosofia per tutta la sua vita, conducendo l’esistenza che da lui ci si sarebbe aspettati, senza sforzarsi di cambiare.
Anche mentre ricorda il passato, lo fa con atteggiamento quasi distaccato, pacifico, e solo a tratti viene a galla il risentimento nei confronti dell’amico. Al contrario, Konrad si caratterizza per essere costantemente in conflitto con la propria interiorità, sia per quanto riguarda il proprio ruolo nella società in termini di professione e aspirazioni, sia per quanto riguarda i sentimenti che lo legano a Henrik.
Sándor Márai riesce a far emergere la profonda lontananza, in tutti i sensi, tra questi due personaggi in modo netto e inconfondibile, attraverso un uso del dialogo ‒ che dà quasi l’impressione di assistere a un’opera teatrale ‒ e del flashback che rendono la narrazione assolutamente scorrevole e coinvolgente. Infatti, nonostante lo spesso strato di retorica che ricopre l’intero romanzo, la lettura non risulta affatto pesante, come invece ci si potrebbe aspettare. Essa è uno strumento congeniale per trasmettere il vuoto che si scopre esistere dietro a ideali che, nonostante siano nobili e positivi, non hanno una corrispondenza nella realtà. Chiaro esempio di questo è l’idea di amicizia e di amore di cui il generale fa sfoggio in modo quasi artificioso, ma che non riflette i concreti rapporti che lui ha con Konrad e Krisztina.
Ciò che colpisce il lettore è proprio come questi due personaggi si mostrano per ciò che realmente sono: non perché abbiano nascosto finora la loro vera natura, ma perché Henrik ha proiettato su di loro ideali e aspettative assolutamente personali e ingiustificate, portandolo ad avere come migliore amico e come moglie due perfetti estranei.
Alice Torreggiani
(www.excursus.org, anno IX, n. 83, giugno 2017)