di ANTONELLA COLELLA – La raccolta di racconti L’attesa (Città del Sole Edizioni, pp. 160, € 12,00) è l’opera prima della scrittrice calabrese Tania Filippone. Il titolo scelto coincide con una di quelle parole che, da sole, riescono a evocare un complesso molto ricco e al tempo stesso del tutto indefinito di ricordi, immagini, desideri e disillusioni. Dall’etimologia antica all’uso corrente, “attesa” indica propriamente una tensione, un movimento, un’aspirazione e lo sforzo che tale spinta implica.
Al contrario di quanto potremmo immaginare, chi attende non sta né semplicemente aspettando, né sperando in un generico futuro: sta vivendo il tempo in atto in un’intenzione concreta, proiettata verso il compimento dell’evento previsto. L’aspetto dell’anticipazione è strettamente legato a questo momento liminare, sospeso tra il dolore e il desiderio di liberazione, soglia tra la realtà e il sogno.
L’indefinitezza delle due categorie con le quali siamo abituati a ragionare, lo spazio e il tempo, viene posta come condizione imprescindibile per l’accendersi dell’immaginazione. «L’attesa come assenza, come fisicità del tempo, come scansione ordinata del prima e del poi, scientificamente esatta. Odiavo ogni tipo di programmazione, in quanto negazione della fantasia, della realtà onirica compagna di viaggio delle nostre azioni quotidiane»: Tania Filippone stessa ci fornisce la dichiarazione di poetica significativamente a metà libro, nel cuore del tredicesimo di ventisei racconti, chiave per comprendere il valore della sua scrittura. Proprio questo dato, troppo centrale per essere fortuito, spinge il lettore a ricercare ulteriori simmetrie e rispondenze in tutta l’opera.
La raccolta è suddivisa in quattro parti più un racconto di chiusura, dal titolo Una stanza tutta per me, il quale contiene elementi prioritari come la dedica e il tributo a Virginia Woolf che ne avrebbero potuto fare a buon diritto la storia da cui partire. Il rovesciamento dell’ordine del narrato è un’altra cifra stilistica dell’autrice, che ha scelto di disseminare in punti chiave del testo la sua personale visione del libro. La sezione iniziale è ambientata sullo sfondo di atmosfere corali e sfumate, ricreate mimeticamente assumendo una prospettiva di volta in volta diversa.
Il primo racconto, Le cafè de nuit, ritrae sei personaggi dalle vite intrecciate tra loro, rievocate dal fondo del pub e dell’oscurità in cui si muovono da una voce anonima, inudibile e, proprio per questo, fonte di autorevolezza e verità: «Io ero fuori dal cono ottico della prospettiva. Di notte ciò che non si vede può essere scambiato per uno spettro, io mi potevo aggirare tra di loro liberamente senza entrare nel campo visivo di chi cercava di sciogliere l’enigma della vita e della morte che si consumavano in parallelo, in quelle interminabili notti».
La scena rimane aperta alle identificazioni e alle continuazioni più disparate, dal momento che il tempo dell’attesa è universale, non solo non quantificabile ma anche prolungabile all’infinito. Come il racconto è per sua natura limitato ma potenzialmente esteso agli altri che lo accompagnano e che ne illuminano il senso, così Tania Filippone afferma che le parole «limitano» ed «espandono», in una pluralità di combinazioni inesauribile. L’io narrante ha in realtà una sua precisa consistenza che si delinea nel corso dei racconti: si esprime sempre al femminile, a volte interviene come personaggio nell’azione, altre volte ne rivendica la testimonianza dal di fuori, rimanendo contemporaneamente a metà tra immedesimazione e straniamento. In quest’oscillazione di prospettiva risulta coinvolto anche il lettore, che non solo viene a conoscenza dello svolgimento della trama ma è introdotto all’interno del processo di scrittura, dietro le quinte dell’invenzione.
Nel secondo raggruppamento di storie prevale la narrazione concentrata sui singoli personaggi: l’insegnante che incontra per caso in stazione una giovane e silenziosa straniera, decidendo di ospitarla; il sarto minuto, derubato dei suoi gioielli e non creduto dalla polizia; la signora dal cappello viola Rosina, fotografa per passione incontrata ancora una volta in stazione, non-luogo dell’attesa per eccellenza.
Nella prima storia la sollecitudine e la tensione, create dalla consapevolezza di aver lasciato a casa una persona che a propria volta aspetta, determinano la rinascita di sentimenti vivi e autentici. «Alla fine ho preso le chiavi e ho aperto. Il divano è in ordine, tutto è in ordine anche stasera. L’unica differenza è un odore nuovo, inconsueto, non mio. L’odore di un’altra esistenza. Il pigiama è ben piegato sul divano, ho acceso tutte le luci in tutte le stanze, sul tavolo del soggiorno c’è un foglio, la scrittura è ordinata, in fondo la firma “Betsy”. Non so cosa c’è scritto, non lo voglio sapere, l’ho lasciato lì quel foglio, al posto che lei gli ha assegnato. Passo sempre dalla stazione, lascio l’automobile aperta al parcheggio dei taxi, come per dire a qualcuno “sto per tornare”». Il desiderio profondo di ricreare le condizioni dell’attesa, ossia il presupposto che qualcuno o qualcosa ci stia a suo turno attendendo, raggiunge qui il punto culminante.
Nella terza e nella quarta parte predomina invece una particolare trattazione del tempo, sia nei confronti della fabula sia della tradizione letteraria precedente. La solitudine, la ricerca di segni da interpretare, la divinazione di piccole tracce di un destino che si immagina più grande e generoso di quanto non sia portano Tania Filippone a rielaborare alcuni miti per loro natura violenti, che hanno per protagonisti le vittime di mostri celebri come il Minotauro o di eventi drammatici come la guerra di Troia.
Anche in questo caso è l’angolatura prescelta a fare la differenza rispetto a una semplice riscrittura del mito, dal quale il libro eredita due antichissime lezioni: il giusto timore con cui guardare al fato e la consapevolezza che il tempo non è che la ripetizione del medesimo, una circolarità che non si spezza. All’interno del ciclo di nascita e morte, «un succedersi eterno di notte e giorno, che scandisce le vite in una realtà comune, quella celata dietro l’imprendibile, l’impalpabile, quella che c’è nella natura delle cose», solo l’attesa ne rappresenta la possibile infrazione, in quanto proietta al di là del prima e del dopo, della fissità di causa ed effetto, la capacità di creare una realtà non condizionata, che ospiti un altro essere ugualmente in attesa di una simile liberazione. «Dalla mia finestra vedo ciò che la mia mente dipinge sugli orizzonti liquidi, e tutto fluttua, si scompone e si ricompone nell’estremo tentativo di raccogliere le immagini della mia vita, per comunicarla così com’è, spettinata dal vento, graffiata dal tempo, carezzata dalla luna, scontata, importante, vera, libera». Tania Filippone
Il genere del racconto breve rappresenta spesso una sfida sia per lo scrittore, chiamato a condensare il massimo del significato, sia per il lettore, chiamato a ricercare un filo conduttore, tematico o stilistico, nei tanti e diversi frammenti proposti. Per L’attesa queste due figure si compenetrano, sino a far sì che l’autore presupponga il ricevente e viceversa, in un clima di fiducia reciproca e in un desiderio di incontro profondo.
Antonella Colella Tania Filippone
(www.excursus.org, anno VII, n. 67, febbraio 2015)