di MICHELE CAVEJARI – «Mantenere la libertà di perdersi, poter uscire dalla rete che ci ha catturati tutti, attendere nel silenzio sottile della natura che qualcosa si riveli – e provare il momento in cui la nostra strada dipende da quel rivelarsi – è l’esperienza originale della spiritualità e del sentimento del sacro, quella che l’uomo arcaico ha individuato spontaneamente, che eremiti di ogni tempo hanno incontrato nei luoghi deserti, e che sempre si può mettere alla prova su se stessi immergendosi fra terra e cielo».Franco Michieli
La vocazione di perdersi. Piccolo saggio su come le vie trovano i viandanti (Ediciclo Editore, pp. 96, € 8,50) di Franco Michieli è un’agile metafisica dell’esplorazione, un breve compendio di meditazioni scaturite da lunghe avventure in terre remote. Si tratta di una riflessione densa ma percorribile da chiunque, tanto dall’appassionato escursionista quanto dal passeggiatore della domenica: un itinerario sull’intimo significato dei luoghi e sui luoghi più intimi del sé. Il libro, però, è soprattutto una lucida conversazione con l’universo naturale, «partecipe e paziente interlocutore», presenza-assenza che nel dedalo della Wilderness compone per noi un diorama, una topografia di salvezza – sia essa cielo stellato o trasparenza di sole nella tormenta –aiutandoci a cogliere il mistero che ci cammina accanto, attraverso, e che mai ci abbandona.
Non per niente, Franco Michieli, geografo ed esploratore, dal 1998 si muove come gli uomini che appartengono al nostro passato assoluto, e cioè senza bussole o mappe al seguito. Alla povertà di strumenti accompagna tuttavia una ricchezza di saperi e di sensazioni adatte a sciogliere il rebus dell’ignoto. Corpo a corpo col sublime, proprio come gli animali migratori,egli riconquista (insieme agli spazi)le esperienze e perciò le competenze dimenticate, rese obsolete da navigatori e gps.
Ne conseguono pagine necessarie e sconcertantemente attuali se pensiamo che oggi, nel XXI secolo, la vera impresa non consta affatto nel saper trovare la strada, ma nel poterla smarrire. Come perdersi, infatti, fra geometrie cittadine straripanti di indicazioni o nel verde domato e istituzionalizzato?
Per un verso, suggerisce l’autore, l’arsenale di strumenti tecnologici da taschino con cui quotidianamente armeggiamo ci sta privando di qualsiasi interlocuzione fisica con la natura; dall’altro, la conoscenza hi-tech cui abbiamo accesso ci tramuta in utenti distratti rispetto alla bellezza, prede di un mondo ricorsivo che parla solamente di se stesso e con se stesso.
Nondimeno, all’opulenza di informazioni virtuali corrisponde quasi sempre l’impoverimento dell’esperienza del cammino, e perciò l’atrofia spirituale del camminatore. Il viaggio assume le sembianze di una distanza da colmare con la massima efficienza ed il viaggiatore dismette il passo vagabondo, non accetta più di buon grado l’imprevisto, la sosta inaspettata, la sorpresa di uno scorcio improvviso a cui votarsi.
Franco Michieli ci invita allora ad «improvvisare la via, senza conoscere a priori una meta e senza altre protezioni che la propria visione della natura». L’azzardo, spiega, è indispensabile specialmente per l’uomo inurbato, per colui che sceglie ogni giorno sempre le stesse rotte e non può perciò comprendere quanto ogni suo riferimento sia un tragico, immobile – per quanto frenetico – automatismo. Se prediligiamo sempre i soliti tracciati, pur senza rendercene conto, è forse perché temiamo di perderci. Temiamo il perderci perché nel nostro immaginario errare, cioè vagare, è sinonimo di sbagliare, tornare indietro, precipitare. Il noto diventa inesorabilmente lo sperone di roccia a cui ci si tiene in prossimità del baratro e quindi l’ultima difesa dinnanzi al terrore della vacuità.
Al contrario, l’autore, reduce da lunghi viaggi fra le Alpi, i Pirenei e le terre artiche della Lapponia, testimonia che è proprio là dove l’ignoto acceca e cancella totalmente l’idea razionale dell’orientamento che l’uomo può attingere ai più potenti strumenti a sua disposizione: le facoltà deposte nel profondo, la fiamma spirituale che rischiara il buio.
Scrive Franco Michieli: «dobbiamo tornare sui nostri passi per alcune decine di migliaia di anni, perché è lì che abbiamo raccolto il bagaglio più importante». Il che non significa, naturalmente, procedere allo sbaraglio, con imprudenza. Il punto, semmai, consta nel riabilitarci ad un sapere sopito ma salvifico, nell’adottare nuove prospettive, specialmente la possibilità educatrice dell’errore, la pedagogia dello sbaglio.
Colta l’antifona: perdersi equivale a rimettersi in discussione, ventilare un dubbio anziché procedere a testa bassa con le poche idee tassative che restituiscono solo un falso senso di immunità.
Con grande limpidezza, le pagine di Franco Michieli procedono dal territorio intimo e personale a quello simbolico e sociale alternando rudimenti e consigli per primitivi orientamenti (sulla base di avvincenti esperienze personali) a considerazioni en plein air su potenti verità antropologiche. Fra queste, senz’altro,l’omonima restituita dall’umiltà: l’intuizione secondo cui tornare ad esplorare il mondo con occhi nuovi, senza stampelle altamente tecnologiche, restituisce il sentimento dell’interconnessione, della mutua dipendenza fra corpi e sostanze, permettendoci «di lasciare spazio agli eventi che non dipendono da noi, alle vite degli altri esseri e ai suggerimenti imprevisti».
La vocazione di perdersi è insomma un libro ricco e poliedrico. A più riprese, da cammino si fa sosta di meditazione; da saggio trascolora in monito, in apologia all’arte del camminare; da scritto sul viaggio muta a breviario filosofico. In tutto ciò, però, non perde mai la sua unità. E d’altronde, filosofia e viaggio non sono forse la stessa cosa? La filosofia nasce peripatetica; lo sapeva Aristotele, l’avevano colto altresì Hesse e Thoreau nei rispettivi Camminare. Il piede mette in moto la mente e la mente chiama il piede affinché l’aiuti a pensare.
Ebbene, a questo vasto, totale panorama, Franco Michieli apporta il suo frammento; lo fa con uno stile impeccabile e suggestivo, evocando l’intelligenza dei sentimenti fra luoghi fisici e sentieri dell’anima.
Testimoniando che l’essere umano non è affatto il centro del mondo, l’autore conferisce al lettore la possibilità autentica di ritrovarsi… non prima di avergli suggerito di perdere quel centro, è ovvio. Il gioco vale la candela: «per farci raggiungere da ciò che ci manca, dobbiamo liberarci di qualcosa di troppo che per abitudine portiamo con noi».
Michele Cavejari
(www.excursus.org, anno IX, n. 84, luglio 2017)