La solitudine dell’assassino – Andrea Molesini

di ROSSELLA FARNESE – «Nella sua vita io non sono stato che un dettaglio, e così lui nella mia. Il dettaglio che uccide, però. Forse ci siamo uccisi a vicenda». Sono queste le parole che sembrano meglio delineano il rapporto tra Luca Rainer, quarantenne,stimato traduttore dalla vita ordinaria e dagli amori saltuari, e Carlo Malaguti, straordinarioe vitale ottantenne, ex bibliotecario, condannato all’ergastolo per omicidio. Il dettaglio che uccide è il titolo del terzo atto dell’ultimo romanzo di Andrea Molesini, La solitudine dell’assassino (Rizzoli, pp. 368, € 19,00).

Rainer, cognome non casuale per un traduttore di Shakespeare e Rilke, viene chiamato da Tullia Basile, direttrice della Fortezza, carcere triestino, per entrare nel labirinto fortificato della mente di Malaguti, per fare breccia nella sua vita, trovandone le chiavi, per tradurre l’anima di quell’uomo «che conosce il dolore, la caduta, la tenebra», scrivendone la storia. In esergo troviamo infatti la seguente citazione da Proust: «Pour écrire ce livre essentiel, le seullivrevrai, un grand écrivain n’a pas, dans le sens courant, à l’inventer puis qu’ilexiste déjà en chacun de nous, mais à le traduire. Le devoir et la tâche d’un écrivain sont ceux d’un traducteur».

In primo piano c’è la storia di un’amicizia tra un uomo «che non si ubriaca, che ha paura di perdere il controllo», Rainer, e l’arguto e imprevedibile Malaguti, che è «il silenzio, l’artiglio, il ronzio […] l’aria, l’ombra, la contrada straniera». È la storia di un’amicizia vera tra due estranei ‒perché «un amico vero è il più estraneo degli estranei» ‒ che si danno del lei, perché mantenere una distanza formale è «il modo più onesto di concedere intimità, forse il solo possibile». Rainer, che ha sempre lasciato andare ciò che lo faceva soffrire, che si è sempre lasciato vivere, permettendo alle circostanze di scegliere per lui, prova un senso di inadeguatezza nei confronti di Malaguti, che non vuole dimenticare, che non sa evitare il dolore, anzi, corteggia la morte.

La storia si snoda attraverso numerose interruzioni: il racconto, ambientato nel 2007, procede à rebours, articolandosi in due antefatti. Nel 1944 Carlo Malaguti, che si nasconde con un amico per non andare in guerra, viene torturato dai tedeschi per diversi giorni. Alle torture assiste una dattilografa, Marta Vianello, che lo esorta a parlare; Malaguti firma così una confessione battuta a macchina dalla segretaria, nella quale afferma di sapere dove si trova il nascondiglio di Anna, bellissima ragazza ebrea di cui è perdutamente innamorato, dal sapore poetico: «Anna era tutto, era Caso e Legge e Disegno supremo. Era bella […] una ragazza che non ne trovi un’altra così in mille anni e in cinque continenti». Alla vista dei tedeschi Anna preferisce dare fuoco al suo nascondiglio e tagliarsi la gola con un vetro: è questa la tenebra che Carlo porta dentro di sé, la «lava che brucia dentro», il «temporale perenne», l’invisibile. Il 7 febbraio 1986, ricattato dalla dattilografa e minacciato con una Luger, Malaguti, nel tentativo di difendersi la uccide. L’avvocato che avrebbe dovuto sostenerlo era la madre di Rainer, donna intelligente e intuitiva, che accetta la scelta di Carlo di non difendersi, di non spiegare il perché di quell’omicidio.

Condannato all’ergastolo, scontati ventuno anni, Malaguti, per buona condotta e limiti di età, si accinge a tornare libero e vuole raccontare la sua storia a Rainer, di cui ha letto e apprezzato le traduzioni, affinché traduca lui, «un libro che vive, che ha occhi, gambe e fiato e piedi e mani e paura e gioia. E fuoco», affinché consegni la sua vita alla pagina scritta. Il tradere è un possibile fil rouge del romanzo, nella doppia accezione di “tradurre” e di “tradire”, come conferma l’altra citazione in esergo da Stendhal: «Je ne puis pas donner la réalité des faits, je n’en puis présenter quel’ombre».

Il racconto è tutto contenuto tra l’incipit, «Ho vissuto da uomo libero e la libertà mi ha devastato», e la conclusione, «il segreto della felicità è la libertà, e quello della libertà è il coraggio». Malaguti ha preferito il dolore all’oblio, il suo no è «il no di Don Giovanni pronunciato sulla bocca degli inferi», il ricordo è il suo solo onore e ricordando non si perdona, ma espia e può vivere. Il campo di battaglia di Malaguti non è il tribunale ma la sua coscienza a brandelli, lacerata dal senso di colpa, non per lo sparo accidentale ma per «quel senso di trionfale, subdolo e fiero piacere che imbozzolava il suo animo», perché «la giustizia un uomo se la porta dentro, quella che la legge incarna è una caricatura impregnata del puzzo del comune sentire».

Malaguti è l’uomo che ha vissuto amando la vita e che ha deciso di lasciarla quando ha sentito «di non avere più l’energia che gli serviva a tenere viva la sua colpa, e vivo il ricordo del suo grande amore»; Rainer, invece, «un gattino abbandonato sotto la pioggia», «all’ombra degli autori e delle belle frasi», è l’uomo che evolve, che fa luce sulla propria vita, che pian piano si impadronisce di sé. Intorno, sullo sfondo,per abbassare la tensione e dare ritmo, il brusio del mondo: una folla di personaggi minori tratteggiati con tocchi vivaci, come la Renna, cameriera della taverna, così soprannominata per la stazza vichinga, che usa lo strofinaccio come una frusta per colpire chi alza la voce o importuna una ragazza, oppure Diana, sorella di Luca e suo «digestivo dopo la scorpacciata Malaguti».

A libro chiuso rimangono un sorriso disincantato, per la pienezza di aver vissuto uno spaccato di vita, e una felicità malinconica, che è, forse, lo spirito della città dove è prevalentemente ambientata la storia, Trieste. Riecheggiano poi i versi della Pantera di Rilke, che Rainer e Malaguti recitano insieme durante uno dei loro primi incontri: «Dalle pupille, a tratti, si alza il velo/ muto. Un’immagine vi penetra/ e scorre, tesa, quieta, nello zelo/ delle membra ‒ fino al centro della tenebra», e si cristallizza un’immagine iniziale, quella dell’ottantenne Malaguti che accarezza e parla con un gruppo di rose bianche nella serra del carcere dai vetri rigati dalla pioggia mentre il sole inzacchera le rose proiettando su di loro l’ombra delle gocce.

Rossella Farnese

(www.excursus.org, anno VIII, n. 78, dicembre 2016)