Nell’era della globalizzazione e dell’ipertecnologia, nella quale gli orizzonti dello spazio cognitivo e di quello pragmatico si sono dilatati sensibilmente e, per definizione, l’uomo è diventato cittadino del mondo, il ricordo delle proprie origini e delle tradizioni popolari si configura come una necessità cogente. Assistiamo al manifestarsi del desiderio, sempre più impetuoso, di custodire il bagaglio culturale peculiare del popolo cui si appartiene, al fine di mantenere un’identità propria che appalesi lo scarto rispetto alle comunità aliene. È imperante, insomma, una sete di cultura delle diversità, che si coniuga nell’impegno per la salvaguardia di quel composito patrimonio – fatto di lingua, costume, religione, letteratura – che rappresenta la carta distintiva di ogni società. Joanne Maurello
Scopo del presente lavoro è proprio quello di attivarsi nella direzione della riscoperta e della tutela di un patrimonio culturale e, nella fattispecie, di quello della Calabria, mia terra natale e pertanto a me particolarmente cara. Più in particolare, il saggio si focalizza sulle remote origini, a tutt’oggi purtroppo poco studiate e conosciute, della letteratura vernacolare calabrese, la quale affonda le proprie radici nel XV secolo. Pochi sanno, forse solo gli appassionati della materia, che il panorama letterario della Calabria del Quattrocento non fu sterile di interventi localistici che, fuoriuscendo dal solco della lingua e della cultura classica, furono latori di una dimensione creativa inedita, contrassegnata da suggestioni autoctone, sia dal punto di vista linguistico che culturale. Sebbene, nel quadro dell’intera penisola, il periodo in questione fosse risolutamente votato al recupero degli studia humanitatis, la Calabria, che pure non si esimette dal coltivarli, conobbe proprio in quel torno di tempo i suoi primi rimatori dialettali. Accanto ad una produzione di stampo greco-latino, la letteratura della regione si protese infatti verso una sperimentazione senza precedenti che si tradusse nell’impiego della parlata volgare, sino a quel momento confinata al contesto della comunicazione quotidiana e alla fruizione nell’ambito del tecnicismo pragmatico-burocratico. Joanne Maurello
Stando a quanto è stato possibile ricostruire, furono tre gli autori che compirono una simile rivoluzione linguistico-letteraria, ognuno dei quali si cimentò nella composizione in versi, contribuendo in misura diversa al fiorire della scrittura d’arte calabrese agli esordi.
Il primo in ordine cronologico fu Antonio Sergentino Roda, vescovo di Rossano, che nel 1438 approntò due volgarizzamenti dal greco di alcuni brani dei Vangeli di Luca e Marco. Egli, partendo dai modelli evangelici, colse il destro per innestare nella versificazione la propria storia personale di reietto, esonerato dalla carica episcopale e dalla città a causa delle malevole accuse di taluni detrattori, attuando così un ardito parallelo con la vicenda del Cristo perseguitato. Nei due componimenti il vernacolo calabrese comincia a fare le sue prime apparizioni, ma si tratta di tracce sparute, che non consentono di stimare le opere di Roda come schiettamente volgari, costrette come sono all’interno di una trama linguistica ancora prettamente latina.
Un decisivo balzo in avanti, verso la piena incursione e fissazione del volgare nella letteratura calabrese, si verificò invece con Joanne Maurello e Coletta, i quali realizzarono le proprie opere a distanza di alcuni decenni da quelle del vescovo rossanese, intorno all’inizio dell’ultimo quarto del Quattrocento. Joanne Maurello redasse, nel 1478, unLamento funebre in onore di don Enrico d’Aragona, marchese di Gerace e suo amato signore, venuto a mancare all’affetto dei cari in seguito a morte accidentale e prematura. Il lungo cantare, composto da 296 versi divisi in quattro capitoli, può a ragione essere considerato il primo vero testo in volgare calabrese, dal momento che in esso la parlata locale rappresenta l’elemento idiomatico portante, al quale si affiancano, ma a scopo meramente aulicizzante, italianismi e latinismi: il vernacolo di Calabria, in questo caso, fa innegabilmente la parte del leone.
Così come pure è predominante l’uso del volgare nelle canzoni e negli strambotti di Coletta, il quale scrisse intorno al 1480, dedicandosi a quel genere di poesia popolare improntato alla descrizione ironica e mordace dell’amore e della figura femminile, non lesinando però di sviluppare anche tematiche sociali a più ampio spettro.
La ricerca si è indirizzata proprio verso la rivalutazione di questo patrimonio letterario delle origini calabre, tuttora in ombra e meritevole di studi più approfonditi, dei quali il presente studio vuole essere un primo tassello. È vero, infatti, che, se escludiamo gli interventi più recenti di Antonio Piromalli e di Pasquino Crupi, lo stato dei lavori sulle opere di questi primi rimatori calabresi, ed in particolare su quella di Joanne Maurello che qui interessa specialmente, langue da circa trent’anni a questa parte.
L’analisi illustra, procedendo per tappe, il travagliato percorso che ha condotto all’attecchimento della lingua volgare nella tradizione letteraria. Dopo aver evidenziato le fasi della fruizione del dialetto nel settore del tecnicismo burocratico-amministrativo, si è esaminata l’azione di resistenza esercitata dalla lingua e dalla cultura classica, greca e latina: un fattore deterrente che ha inevitabilmente procrastinato l’insorgere di una letteratura a carattere localistico, la quale ebbe luogo soltanto nel corso del Quattrocento, anche con i testi di Roda e di Coletta, oggetto di una breve riflessione.
Gli ultimi due capitoli sono interamente dedicati all’analisi del componimento di Joanne Maurello, vero padre fondatore della letteratura in volgare calabrese.
Attraverso una trattazione svolta principalmente in chiave storico-letteraria, si sono messe in luce le implicazioni rintracciabili nella sua opera, sia in riferimento alla società del tempo sia all’intero patrimonio del genere poetico.
L’ultima parte del saggio pone precipuamente l’accento sul piano linguistico, con l’obiettivo di accedere al laboratorio compositivo di Joanne Maurello, per rischiararne la novità delle scelte idiomatiche, finora pressoché mai sottoposte ad analisi accurate. A tal fine, la disamina dettagliata del primo capitolo del Lamento permette di avere una percezione concreta della complessità e della varietà insite nel volgare impiegato dal rimatore, a cui si deve senza dubbio il merito dell’avvio della letteratura calabrese.
Anna Panzera
Su gentile concessione di Pungitopo Editrice, pubblichiamo in anteprima l’Introduzione (pp. 7-10) al volume La letteratura volgare in Calabria. Il Lamento di Joanne Maurello, scritto da Anna Panzera (2014, pp. 152, € 17,00).
(www.excursus.org, anno VI, n. 63, ottobre 2014)