di GIUSEPPE LICANDRO – La fine della Grande Guerra (1918) alimentò la speranza della nascita di uno stato indipendente del Kurdistan, l’ampio altopiano che si estende nella parte nord-orientale della Mesopotamia lungo l’alto corso dei fiumi Eufrate e Tigri.
Tale sogno, tuttavia, fu frustrato dal Trattato di Losanna del 1923, che stabilì lo smembramento del Kurdistan tra Iran, Iraq, Siria e Turchia. Il miraggio dell’unificazione nazionale non smise mai di albergare nei cuori dei patrioti curdi, i quali, all’interno degli stati di appartenenza, crearono partiti e movimenti che si batterono per l’autonomia amministrativa e il riconoscimento dei diritti civili.
Il caos nel quale è piombato il Medio Oriente nel 2014, in seguito allo scoppio della guerra civile siriana e alla formazione dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (Isis), ha riproposto prepotentemente la questione del Kurdistan. I guerriglieri curdi (peshmerga), infatti, si sono sacrificati in prima persona, arginando l’avanzata dell’Isis ed ergendosi a baluardo dell’Occidente contro il dilagare delle armate del califfo Abū Bakr al-Baghdādī [1].
Per comprendere cosa stia avvenendo oggi nella Mezzaluna Fertile e quali siano le prospettive del popolo curdo, consigliamo di leggere la raccolta di saggi Kurdistan, la nazione invisibile (Mondadori, p. 192, € 14,00), a cura di Stefano Maria Torelli, ricercatore presso l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) e docente di Storia e Istituzioni del Medio Oriente presso l’International University of Language and Media di Milano.
Da Salah al-Din alla Grande Guerra
Nel primo saggio del libro, Il Kurdistan e il Medio Oriente. Storiche divisioni e intrecci internazionali, Torelli riassume brevemente le vicende che hanno contraddistinto la storia curda. Egli, innanzi tutto, spiega come «in totale i curdi siano circa 30-35 milioni» e parlino due lingue indoeuropee tra loro simili (il Kurmanji e il Sorani), oltre a vari dialetti. La loro origine geografica è individuata nella regione di Gordiene, ubicata nella Turchia orientale nei pressi del lago di Van, dove furono islamizzati intorno al VII secolo d. C.
Tra il XII e il XIII secolo, una dinastia di origine curda – gli Ayyubidi – si affermò nell’Impero turco (sorto intorno al 1037). Ne fu capostipite il famoso sultano Salah al-Din, che nel 1187 conquistò Gerusalemme e seppe poi resistere alla controffensiva dei crociati cristiani guidati da re inglese Riccardo I Cuor di Leone.
Verso la fine del XIII secolo, l’Anatolia fu occupata dalle truppe del bey Osman I, che gettò le basi per la formazione dell’Impero Ottomano, destinato a perpetuarsi fino a 1918. A innescarne la crisi irreversibile fu la guerra russo-turca del 1877-1878, che ebbe nel Kurdistan uno dei fronti più attivi. A tale epoca si fa risalire la nascita del nazionalismo curdo, favorito dagli europei che vedevano in esso «un importante strumento di opposizione interna all’Impero Ottomano».
Tra il 1879 e il 1881, varie rivolte curde furono duramente represse dal sultano Abdulhamid II (1876-1909), il quale tentò vanamente di “turchizzare” il Kurdistan. Alla fine della Prima Guerra Mondiale, il governo britannico sostenne il nazionalismo curdo in chiave antiottomana: una clausola del Trattato di pace di Sèvres, infatti, prevedeva «un progetto di autonomia locale per le aree a maggioranza curda».
Le promesse britanniche, però, furono accantonate dopo la rivoluzione di Mustafa Kemal Atatürk e la vittoria turca nella guerra contro la Grecia per il possesso dell’Anatolia (1919-1922). In quegli anni, inoltre, si crearono fratture tra fazioni che impedirono «la formazione di un unico fronte curdo, favorendo al contrario un clima di estrema frammentazione».
La nascita del Pkk e i conflitti intestini
Nonostante l’avvento di un leader carismatico come Simko Shikak, attivo in Iran negli anni Venti, la causa curda cadde nel dimenticatoio [2]. Se ne tornò a parlare solo verso la fine degli anni Settanta, con la nascita del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), d’ispirazione marxista-leninista. Il Pkk, organizzatosi attorno al segretario Abdullah Öcalan, rivendicò i diritti civili dei curdi in Turchia, «come quello dell’utilizzo della propria lingua in pubblico», ponendosi anche l’obiettivo di una rivoluzione socialista.
Posto fuorilegge dal golpe che, nel 1980, portò al potere il generale Kenan Evren, il Pkk intraprese la lotta armata. La guerra civile che ne seguì provocò oltre 40.000 vittime e il partito di Öcalan – sostenuto da Grecia, Iran e Urss (storiche rivali della Turchia) – fu inserito «nella lista delle organizzazioni terroristiche dei maggiori Paesi occidentali».
Il Pkk fu sostenuto militarmente pure dal presidente siriano Ḥāfiẓ al-Asad, entrato in rotta di collisione con la Turchia «per via del controllo delle risorse idriche del Tigri e dell’Eufrate, oltre che per i vecchi dissidi legati alla rispettiva appartenenza ai due blocchi contrapposti durante la Guerra fredda». Nel 1998, i due stati giunsero sull’orlo di una guerra, che fu evitata solo perché la Siria espulse Öcalan, allora esule in territorio siriano [3].
I curdi, comunque, subirono persecuzioni anche da parte del regime assadiano: nel 1962, ad esempio, circa 200.000 rifugiati furono privati della cittadinanza siriana, vivendo come apolidi «perché accusati di essere immigrati irregolari dalla Turchia». Nel 2011, dopo lo scoppio della guerra in Siria, Baššār al-Asad si è impegnato a concedere la cittadinanza ai curdi siriani, «sperando in tal modo di portarli dalla propria parte contro i gruppi ribelli».
Nel 2014 i curdi hanno preso il controllo della regione del Rojava, situata nel nord-est della Siria, dove hanno creato un governo autonomo sotto il controllo del Partito dell’Unione Democratica (Pyd), «ritenuto una sorta di emanazione del Pkk». Il Pyd dispone di un esercito (Ypg) che sta fronteggiando con decisione l’Isis, procurando non poche apprensioni al governo turco, il quale si oppone da sempre all’indipendenza del Kurdistan.
La genesi di uno stato unitario si è rivelata impossibile anche a causa delle divisioni presenti nell’arcipelago curdo. Negli anni Novanta, in Iraq, scoppiò una guerra fratricida tra il Partito Democratico del Kurdistan (Kdp), capeggiato da Masoud Barzani, e l’Unione Patriottica del Kurdistan (Puk), guidata da Jalal Talabani. Il dittatore Saddam Hussein sfruttò il conflitto, appoggiando il Kdp «nella speranza di riprendere il controllo dell’intero Iraq settentrionale», mentre il Puk ebbe il sostegno dell’Iran e del Pkk [4].
Tra le due fazioni, infine, si giunse a un accordo e – dopo la caduta del regime di Saddam Hussein – Barzani divenne capo del parlamento regionale curdo, mentre Talabani fu eletto presidente della Repubblica federale irachena.
I curdi in Turchia
La difficile convivenza tra curdi e turchi è l’oggetto del secondo saggio del libro, I curdi in Turchia. Un futuro a tinte fosche, dagli storici Soner Cagaptay e Cem Yolbulan. Gli autori ritengono che la minoranza curda non sia mai riuscita a integrarsi dentro la Turchia, soprattutto per due ragioni: la resistenza del governo di Ankara a riconoscere l’autonomia del Kurdistan turco e la relativa povertà nella quale hanno sempre vissuto i suoi abitanti.
La secolarizzazione imposta da Atatürk gli alienò le simpatie dei curdi, profondamente religiosi, i quali tentarono di abbattere il regime kemalista, scatenando nel 1925 una rivolta guidata da Shayk Said, prontamente repressa. Il conflitto militare che, dal 1984 in poi, oppose il Pkk al governo di Ankara rese sempre più povero il Kurdistan turco, al punto che ancora oggi «nelle province dell’Anatolia sudorientale […], il reddito medio annuo disponibile ammonta a circa 1900 dollari, mentre quello di Istanbul è di circa 5300 dollari».
Nel 2002, dopo l’ascesa al potere in Turchia del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp), il Primo Ministro Recep Tayyip Erdoğan riconobbe, inizialmente, i diritti della minoranza curda, creando un canale televisivo in Kurmanji e autorizzando «l’insegnamento del curdo come materia facoltativa nelle scuole medie e superiori».
Nel 2012, Erdoğan avviò le trattative di pace con Öcalan, che dopo due anni portarono al temporaneo «cessate il fuoco» tra l’esercito e i miliziani del Pkk. Lo scoppio della Guerra civile siriana, tuttavia, ha determinato una ripresa delle ostilità e «dal luglio 2015, il conflitto tra Turchia e Pkk è tornato aperto e aspro come non mai».
Recentemente ha fatto il suo ingresso nel Parlamento di Ankara il Partito Democratico del Popolo (Hdp), di tendenze liberali, che ha conquistato consensi tra i nazionalisti curdi e i progressisti turchi, diventando una delle principali forze di opposizione. L’Akp, però, ha radicalizzato le proprie posizioni, mirando «a trasformare il sistema parlamentare della Turchia in un sistema presidenziale con Erdoğan al comando» [5].
La lotta dei curdi contro l’Isis
Nel saggio Il fattore Is: i curdi come primo fronte contro il Califfato, Cengiz Gunes – ricercatore presso l’Open University di Milton Keynes (Uk) – focalizza l’attenzione sulla guerra che, dal 2014 in poi, ha opposto i peshmerga all’Isis, provocando un elevato numero di vittime tra i curdi: le stime, infatti, parlano di circa 1345 morti e 8.000 feriti.
Dopo l’iniziale avanzata in territorio siriano delle armate del califfo al-Baghdādī, le forze curde sono riuscite a ricacciare indietro le truppe islamiste. In particolare, la città di Kobanê – che sorge lungo il confine tra Siria e Turchia – «è diventato l’epicentro della lotta», resistendo stoicamente all’assedio dell’Isis.
Nel 2015, l’Ypg è riuscito a respingere le milizie nemiche e a penetrare gradualmente nel territorio del califfato, senza fermarsi più. I peshmerga, tuttavia, hanno avuto problemi anche con l’Esercito di Liberazione Siriano, jihadista e antiassadiano, contro il quale si sono scontrati ripetutamente a partire dal 2012.
Il conflitto armato si è esteso anche al Kurdistan iracheno e ha coinvolto la Turchia, dove esponenti dell’Isis hanno organizzato degli attentati, in particolare contro il partito filocurdo dell’Hdp, provocando «la morte di molti attivisti e civili a Diyarbakir, Suruç e Ankara».
Il petrolio curdo
Nel saggio Il fattore energia. Petrolio e State building nel Kurdistan iracheno, Carlo Frappi – docente presso l’Università Cattolica di Milano e ricercatore dell’Ispi – pone in risalto l’importanza dello sfruttamento dei giacimenti petroliferi nelle guerre irachene.
Frappi è convinto che l’estrazione degli idrocarburi abbia contribuito, già negli anni Venti, «a delimitare sia i confini internazionali, sia le demarcazioni amministrative interne al Paese». L’Iraq è stato costruito come un rentier State, cioè «uno Stato che fonda la propria economia sulla rendita piuttosto che sulla produzione», usando la vendita degli idrocarburi per incrementare la spesa pubblica e conquistare ampi consensi popolari.
Il Partito Baʿth, asceso al potere nel 1968, sfruttò le rendite petrolifere ed esercitò un ferreo controllo, inasprendo la repressione contro i curdi. Dopo la caduta di Saddam Hussein, il Kurdistan iracheno fu elevato al rango di «regione federata», amministrata dal Kurdistan Regional Government (Krg), che prese il controllo delle sue ingenti risorse petrolifere.
Il compromesso tra Kdp e Puk consentì all’intera regione di raggiungere un alto livello di stabilità, al punto da presentarsi come «un’isola di sicurezza nel mare di instabilità dell’Iraq post-2003». Il Krg accentrò la gestione degli idrocarburi nelle mani del Ministero per le Risorse Naturali, il quale «ha notevolmente contribuito alla personalizzazione della politica energetica […] e all’offerta, alle compagnie estere, di un agevole modello di affari».
Le compagnie straniere furono invogliate a comprare il petrolio curdo dagli ampi margini di profitto loro concessi, a discapito del greggio prodotto nel resto dell’Iraq, la cui estrazione prevedeva il versamento «alle compagnie energetiche di un corrispettivo fisso per le loro attività». Il Krg riuscì a stipulare contratti con varie multinazionali del petrolio (Chevron, Exxon Mobil, Gazprom, Total), scatenando così le reazioni del governo di Baghdad [6].
Insorse, infatti, uno scontro politico-istituzionale intorno ad alcuni articoli della Costituzione concernenti le risorse energetiche, che il Krg interpretava in chiave autonomistica, mentre il governo di Baghdad in senso centralistico. Il governo iracheno dichiarò illegittimi i contratti stipulati dai curdi con le compagnie straniere, facendo ricadere l’onere dei pagamenti sul Krg, che, per colmare i debiti, dovette incrementare la vendita diretta di petrolio verso Iran e Turchia [7].
Seri danni all’economia del Kurdistan iracheno sono stati poi arrecati dall’espansione militare dell’Isis e dal deprezzamento del petrolio, al punto da «rimettere in discussione i risultati conseguiti in un decennio di crescita». La fuga verso il Kurdistan meridionale di oltre un milione di profughi, inoltre, ha aumentato la pressione demografica, «contribuendo a un netto deterioramento degli standard di vita e al pronunciato aumento della povertà».
La congiuntura negativa ha provocato una scissione interna al Kdp con la nascita del Gorran, un movimento fautore di un rinnovamento in chiave federalistica e antitribale, il quale è diventato ben presto la seconda forza del Kurdistan iracheno, che, fomentando le proteste nei confronti dei dirigenti curdi, ne ha reso meno stabile la situazione politica.
I curdi e l’Occidente
L’ultimo saggio del libro, Kurdistan, l’eterno dilemma dell’Occidente, scritto da Robert Lowe – vicedirettore del Middle East Centre alla London School of Economics and Political Scienze – si occupa delle relazioni tra i curdi e le potenze occidentali.
L’autore sostiene che «per la politica occidentale i curdi rappresentano un vero e proprio rompicapo» ed è convinto che, almeno fino agli anni Ottanta, gli Usa e i loro alleati trascurassero volutamente la questione curda, temendo di rimettere in discussione l’ordine geopolitico del Medio Oriente.
Negli anni Novanta, gli Stati Uniti iniziarono a sostenere i diritti della popolazione curda irachena, alleandosi con il Kdp e il Puk per rovesciare Saddam Hussein e, in seguito, col Krg per fronteggiare l’esercito dell’Isis. Ciò nonostante, gli Usa non hanno mai perorato la causa dell’indipendenza del Kurdistan, assumendo una posizione «ambigua e talvolta contraddittoria», poiché temono di disturbare la Turchia, loro principale alleata in Medio Oriente, che non tollera l’idea di uno stato nazionale curdo.
Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sono stati finora contrari anche alla creazione di una federazione siriana che affidi ai curdi l’amministrazione del Rojava, poiché «l’obiettivo a lungo termine dei colloqui di pace della Nazioni Unite è un governo nazionale che tenga unita la Siria». La Russia, approfittando dei tentennamenti occidentali, ha stretto un’alleanza con i curdi siriani e ciò ha reso ancora più intricato il panorama mediorientale.
Secondo Lowe, è possibile che in Iraq la caotica situazione si protragga «così com’è per i prossimi anni» [8], mentre in Siria le trattative di pace potrebbero provvisoriamente portare alla creazione di un sistema federale con la divisione del Paese in tre zone «grosso modo corrispondenti alle aree attualmente in mano ai curdi, al governo e agli insorti». Non s’intravede all’orizzonte, dunque, l’avvento di uno stato indipendente del Kurdistan.
Giuseppe Licandro
NOTE BIBLIOGRAFICHE
[1] – Per capire la genesi e l’evoluzione dell’Isis, rimandiamo all’articolo: GIUSEPPE LICANDRO, Una tetra bandiera sventola in Medioriente, in www.lucidamente.com.
[2] – Simko Shikak si rese protagonista, nel marzo 1918, di una rivolta che lo portò a prendere temporaneamente il controllo della regione del lago di Urmia in Iran. Cfr. MAURO DI VIESTE, Promesse e tradimenti. Kurdistan terra divisa, in www.gfbv.it.
[3] – Öcalan, dopo brevi soggiorni in Russia e Italia, fu catturato nel 1999 in Kenya dai servizi segreti turchi e poi condannato all’ergastolo. Cfr. MARIA DORE, 16 Febbraio 1999: l’arresto di Öcalan, in www.sardegnablogger.it.
[4] – Durante la Guerra Iran-Iraq, Saddam Hussein ordinò – per rappresaglia – l’uso di gas al cianuro, provocando la morte di migliaia di abitanti di Halabja. Cfr. RAFFAELE DEL GATTO, Massacro di Halabja: quando l’Onu non mosse un dito per le armi chimiche, in http://it.ibtimes.com.
[5] – Le tendenze autoritarie di Erdoğan si sono rafforzate dopo il fallito golpe militare del 15 luglio 2016, il quale – secondo il presidente turco – sarebbe stato organizzato dall’imam Fethullah Gülen, che vive in esilio negli Usa. Cfr. Turchia, la vendetta di Erdogan dopo “il regalo di Dio” del golpe sventato, in http://www.infoaut.org.
[6] – Nel Kurdistan iracheno sarebbero presenti, oltre a grandi quantità di gas naturale, riserve di petrolio pari a 45 miliardi di barili. Cfr. Iraq e Kurdistan, il petrolio che divide, in www.terrasanta.net.
[7] – Nel 2013 il Krg ha completato un oleodotto che consente di trasportare in Turchia il petrolio estratto nei giacimenti curdi di Taq Taq. Cfr. SISSI BELLOMO, Un nuovo oleodotto apre al petrolio curdo la via del Mediterraneo, in www.ilsole24ore.com.
[8] – In Iraq si è da poco conclusa la Terza battaglia di Falluja, che ha permesso alle truppe governative di togliere all’Isis il controllo della città. Per ulteriori informazioni rimandiamo a: Sconfinamento della guerra civile siriana in Iraq, in https://it.wikipedia.org.
(www.excursus.org, anno VIII, n. 76, ottobre 2016)