di STEFANIA BOSCHINI – Scrittore e giornalista, Guy de Maupassant è stato uno dei massimi esponenti del Naturalismo, filone letterario di fine Ottocento. Prendendo spunto da Balzac e Flaubert, le sue opere sono una chiara denuncia nei confronti della borghesia, la cui superficialità pervade le strade trasformandosi nell’architettura parigina moderna.
Nato in Normandia nel 1850, lo scrittore trascorre la sua adolescenza lontano dal padre che, a causa di innumerevoli adulteri, porta alla fine del proprio matrimonio. Cresciuto con il fratello, Maupassant coglie il talento e la passione per la letteratura dalla madre, figlia dell’alta borghesia. Una volta conseguita la laurea nel 1870, si arruola come volontario per combattere la guerra franco-prussiana che lo porterà a trasferirsi a Parigi. Il giovane per un primo periodo trova impiego presso il Dipartimento Navale ma ben presto Gustave Flaubert (amico della madre) lo prenderà sotto la sua “ala”, inserendolo nel mondo del giornalismo e della letteratura. Questa opportunità lo condurrà a condividere il suo tempo, nonché idee, nei salotti degli intellettuali di quell’epoca, tra cui il romanziere russo Ivan Turgenev, il francese Émile Zola e Alexander Dumas figlio. Grazie a questi incontri l’autore si dedica alla scrittura, creando versi, operette teatrali e ampliando il proprio talento con la produzione di novelle e romanzi. Grande amante della solitudine, spesso Maupassant si isola per lunghi periodi sul suo yatch, componendo quei testi che lo hanno reso celebre.
Entrati nella storia dei classici della letteratura, i suoi scritti presentano personaggi di poco spessore, corrosi da vizi e dal materialismo. Gli uomini sono plasmati dall’economia e dalla politica mentre le donne vengono presentate come sciocche alla ricerca di un barlume di felicità. Attraverso la loro descrizione è possibile notare la morale dello scrittore, che rimprovera la dissolutezza di una società priva di interessi. Per questo motivo i suoi romanzi non hanno particolari sfumature, l’autore usa uno sguardo realista per parlare, con un linguaggio semplice e chiaro, di individui spogliati dalla maschera dell’eroe per apparire umani. Offre così una lettura distaccata: sono opere da leggere come se fossero dipinti su tela, la cui realtà è mostrata in tutta la sua efficacia.
Lev Tolstòj riguardo allo scrittore disse: «L’autore possedeva questo dono speciale, il talento, che è la capacità di concentrare la propria attenzione su un dato oggetto e di vederci qualcosa di nuovo, qualche cosa che gli altri non vedono. Questo dono Maupassant lo possedeva, senza dubbio».
Maupassant, nonostante abbia scritto più novelle che romanzi, è grazie a quest’ultimi che è principalmente conosciuto. Attraverso i suoi testi è possibile notare la filosofia di Schopenhauer, il cui cinismo è tormentato dall’ipocrisia e dall’opportunismo.
Il suo disprezzo per una società meschina e arrivista è evidente in tutte le sue opere, a partire da Una vita, del 1883, dove la protagonista Jeanne incontra solo delusioni e tradimenti lasciandosi travolgere dalla sventura. In Bel-ami del 1884 vi è un Duroy che, in tutta la sua mediocrità, rappresenta l’arrampicatore sociale. Usando il proprio charme si conquista il podio diventando un giornalista famoso. Al di là delle critiche che lo considerano indecente, questo romanzo in realtà rappresenta la massima espressione di Maupassant.
In Pierre e Jean (1888), Forte come la morte (1889) e Il nostro cuore (1890) viene meno quella morale tra autore e i suoi personaggi, tratto distintivo del talentuoso scrittore. Sembrano prodotte con fretta, senza particolari intenzioni; probabilmente a causa di una malattia ereditaria, la sifilide, che lo porterà a soffrire di allucinazioni e forti emicrania, al punto tale da tentare, per tre volte, il suicidio.
Nonostante ciò, tutte le sue opere ebbero un gran riscontro da parte di una società desiderosa di conoscersi attraverso lo specchio creato dall’autore.
«Bisognerebbe amare, amare follemente senza vedere ciò che si ama. Perché vedere è comprendere, e comprendere è disprezzare».
Stefania Boschini
(www.excursus.org, anno IX, n. 80, febbraio 2017)