di GIUSEPPE LICANDRO – A seguito del referendum costituzionale del 4 dicembre, sembra opportuno riflettere sulle ragioni storico-politiche che hanno indotto una parte della nostra classe dirigente a modificare l’ordinamento istituzionale vigente.
Negli anni Sessanta del secolo scorso – su iniziativa di Randolfo Pacciardi – prese forma un progetto di revisione della Costituzione che s’ispirava al modello presidenzialista introdotto in Francia da Charles De Gaulle. Le idee di Pacciardi furono fatte proprie prima da Licio Gelli, maestro venerabile della Loggia P2, e, successivamente, da vari esponenti della Prima e della Seconda Repubblica.
Per capire meglio la natura di tale orientamento politico e comprenderne le finalità, invitiamo a leggere il saggio Da Gelli a Renzi (passando per Berlusconi). Il piano massonico sulla «rinascita democratica» e la vera storia della sua realizzazione (Ponte alle Grazie, pp. 240, € 14,00) di Aldo Giannuli, ricercatore di Storia contemporanea presso l’Università di Milano.
L’autore – che ha collaborato con la Commissione Stragi e si è occupato delle trame eversive connesse alla “strategia della tensione” – sgombra fin dall’inizio il campo da ogni preconcetto “complottistico”, spiegando nell’Introduzione di volersi soffermare «sulla cultura politica della P2 e sul progetto di rifondazione dello Stato avanzato dalla loggia, sul contesto politico in cui essa nacque e sul suo lascito culturale che incide ancora oggi».
La carriera di Gelli
Il primo capitolo del saggio di Giannuli è dedicato alla figura di Gelli e alle grottesche vicende della sua esistenza, che l’hanno fatto apparire «un eterno intrigante, un faccendiere-spia, un golpista alla fine sconfitto», anche se in realtà fu piuttosto un abile mestatore al servizio dei “poteri forti”.
Volontario tra i fascisti che parteciparono alla Guerra di Spagna, Gelli fece poi carriera nel Partito Nazionale Fascista. Durante la Seconda Guerra Mondiale, ebbe la ventura di impossessarsi del tesoro statale della Jugoslavia, che riuscì a portare in Italia su ordine del generale Mario Roatta, forse appropriandosi di un terzo circa dei lingotti d’oro.
Dopo l’8 settembre 1943, egli aderì alla Repubblica Sociale Italiana, assumendo l’incarico di federale a Pistoia, ma iniziò subito a praticare «uno spregiudicato doppio gioco» con i partigiani toscani ed entrò segretamente in contatto col capo del Comitato di Liberazione Nazionale pistoiese, Italo Carobbi, favorendo la liberazione di alcuni prigionieri politici.
Nel Secondo Dopoguerra, Gelli iniziò a lavorare nel settore dell’alta moda; poi fu nominato direttore della Permaflex di Frosinone e si legò a Romolo Diecidue, un deputato della Democrazia Cristiana, che gli presentò Giulio Andreotti, allora sottosegretario del Ministero per l’Industria. Nel 1963 si affiliò al Grande Oriente d’Italia, l’obbedienza massonica più potente del Belpaese, e fece una rapida carriera, ascendendo al grado di “maestro” tre anni dopo.
Negli anni Quaranta, Ugo Lenzi – gran maestro del Goi – aveva costituito la Loggia Propaganda 2, che in seguito era passata sotto il comando di Giancarlo Elia Valori, amico degli esponenti democristiani Ettore Bernabei e Amintore Fanfani. Nel 1970, il gran maestro Lino Salvini decise di affiancargli Gelli, il quale riorganizzò la Loggia P2 «reclutando centinaia di nuovi adepti», soprattutto giornalisti, imprenditori, militari e politici, sia italiani che stranieri.
Gelli fu poi coinvolto nel fallito colpo di stato ordito da Junio Valerio Borghese e, negli anni Settanta, fu tra i protagonisti della “strategia della tensione”: il suo nome, infatti, comparve in molte indagini giudiziarie (Crack del Banco Ambrosiano, Strage di Bologna, Caso Calvi, eccetera) e venne anche riconosciuto colpevole di alcuni reati (bancarotta fraudolenta, calunnia e depistaggio, procacciamento di notizie riservate). Nel 1973, inoltre, fu tra i protagonisti dell’Operazione “Gianoglio”, che permise a Juan Perón di ritornare alla guida dell’Argentina, dopo un lungo esilio.
Lo scandalo della Loggia P2
Gelli affiliò alla Loggia P2 anche alcuni dirigenti della Banca Popolare dell’Etruria che, nel Dopoguerra, grazie alla compravendita di lingotti d’oro, era diventata «la principale riserva aurea dopo quella di Bankitalia». Fu presso la banca toscana che il “venerabile” aprì il conto «Primavera», nel quale affluivano le quote associative dei nuovi adepti.
Nel 1975, il capo della P2 fondò l’Organizzazione Mondiale del Pensiero e dell’Assistenza Massonica, una superloggia che «si proponeva anche come mediatore di crisi internazionali, come punto di riferimento per gruppi di nazioni, come veicolo di accordi commerciali». All’Ompam aderirono importanti personaggi internazionali come «il presidente egiziano Anwar al-Sadat, quello liberiano William Tolbert, il vicepresidente ivoriano Aner Lilè Clément».
In quegli anni, Gelli toccò l’apice della propria potenza: gestì in prima persona il Caso Moro, finanziò e condizionò il Partito Socialista Italiano (tramite il conto «Protezione» aperto a Lugano presso l’Unione di Banche Svizzere), provocò una scissione nel Movimento Sociale Italiano con l’effimera nascita di Democrazia Nazionale e infine sovvenzionò (tramite il banchiere Roberto Calvi) il sindacato autonomo Solidarność contro il regime comunista polacco.
Il suo potere s’incrinò bruscamente nel maggio 1981: durante le indagini della magistratura milanese sull’omicidio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli e sul finto rapimento del banchiere Michele Sindona, i sostituti procuratori Gherardo Colombo e Giuliano Turone autorizzarono la perquisizione della residenza aretina di Gelli (Villa Wanda) e di una sua fabbrica a Castiglion Fibocchi, dove fu trovato un elenco di 962 adepti alla Loggia P2 (ma forse il numero degli iscritti era maggiore).
Fu uno scandalo enorme che coinvolse personaggi illustri fra cui: politici (Fabrizio Cicchitto, Franco Foschi, Pietro Longo, Enrico Manca, Emilio Massera, Gaetano Stammati); banchieri e imprenditori (Giovanni Agnesi, Silvio Berlusconi, Roberto Calvi, Leonardo Di Donna, Giorgio Mazzanti, Umberto Ortolani, Angelo Rizzoli, Michele Sindona, Bruno Tassan Din, Giancarlo Elia Valori); membri delle forze armate (Giovanni Allavena, Gino Birindelli, Federico Umberto D’Amato, Giulio Grassini, Antonio Labruna, Gianadelio Maletti, Vito Miceli, Pietro Musumeci, Giuseppe Santovito, Giovanni Torrisi, Ambrogio Viviani); giornalisti (Maurizio Costanzo, Giampaolo Cresci, Franco Di Bella, Roberto Gervaso, Paolo Mosca, Carmine Pecorelli, Gustavo Selva); personaggi dello sport e dello spettacolo (Artemio Franchi, Alighiero Noschese, Claudio Villa, Enrico Vinci).
Gelli si diede alla latitanza e nel luglio 1981 – durante una perquisizione all’aeroporto di Roma – nella valigia della figlia Maria Grazia furono rinvenuti dei documenti compromettenti, tra cui il Piano di Rinascita Democratica e il Field Manual 30-31 (redatto dal generale statunitense William Westmoreland). La scoperta probabilmente fu favorita dallo stesso Gelli che voleva «avvertire gli americani circa la disponibilità […] a parlare e fornire prove materiali se non fosse stato aiutato», nonché «arrivare a Fanfani e fare pressione su uno dei massimi dirigenti della DC».
Nel dicembre 1981, il Parlamento italiano decretò lo scioglimento della Loggia P2 e in seguito approvò una legge che vietava le società segrete. Gelli fu arrestato nel 1982 a Ginevra e rimase in carcere per un anno, prima di evadere; nel 1987 si costituì e fu estradato in Italia, dove fu assegnato agli arresti domiciliari fino al 1989. La sua carriera politico-massonica, tuttavia, si chiuse bruscamente: «espulso con procedimento lampo dal Goi, dimessosi (forzatamente) da tutti gli incarichi diplomatici […], restò un personaggio noto alla stampa e all’opinione pubblica, ma assente da qualsiasi centro decisionale».
Il progetto gelliano
Giannuli dedica il secondo capitolo del libro all’esame del progetto politico gelliano, ponendo l’accento sulla mentalità aristocratica del “venerabile” e sulla sua prossimità con la destra statunitense: «un americano […] con cui Gelli ebbe molte frequentazioni fu Michael Ledeen, repubblicano, come lo era Philip Guarino, altro amico di Gelli, e come Frank Gigliotti». Le idee oligarchiche proprie degli ambienti statunitensi più conservatori furono adottate da Gelli, che le riportò in tre documenti elaborati a metà degli anni Settanta: il memorandum sulla situazione italiana, lo Schema «R» e il Piano di Rinascita Democratica.
Il memorandum fotografava la crisi economico-sociale dell’Italia – che Gelli attribuiva a tre fattori: «eccesso di pretese salariali», «crisi morale profonda», «crisi politica nell’interno dei partiti» – e prefigurava come sua possibile soluzione la riforma dello Stato in senso presidenzialista.
Lo Schema «R» – strutturato in 54 punti – si poneva l’obiettivo di «allontanare dall’Italia il pericolo di un Governo dittatoriale di ispirazione comunista o fascista» e riportava alcuni capisaldi tipici della destra conservatrice: «passaggio dalla repubblica parlamentare alla repubblica presidenziale», «abolizione del bicameralismo con l’istituzione di una sola Camera», «riduzione del numero dei parlamentari», «nuova legge elettorale», «soppressione delle province», «riduzione dei ministeri», «revisione dei poteri della corte Costituzionale».
Il Piano di Rinascita Democratica modificò in parte queste richieste, ma ne rispettò la filosofia di base, integrando lo Schema «R» con un articolato progetto di revisione costituzionale finalizzato all’adozione del sistema politico vigente in Germania, fondato sul cancellierato, che consentiva di destituire il Presidente del Consiglio solo eleggendone il successore.
Il Prd mirava principalmente alla costituzione di un club riservato di tipo rotariano – comprendente «operatori imprenditoriali e finanziari, esponenti delle professioni liberali, pubblici amministratori e magistrati, nonché pochissimi e selezionati uomini politici» – che, in collegamento con la massoneria internazionale, avrebbe istituito una sorta di «comitato di garanti» in grado di infiltrarsi le forze politiche e di «scegliere gli uomini su cui puntare» (ad esempio Giulio Andreotti, Bettino Craxi, Giacomo Mancini, Flaminio Piccoli).
I partiti tradizionali sarebbero stati disarticolati e sostituiti da due schieramenti politici – «l’uno sulla sinistra […] e l’altro sulla destra» – che, alleandosi, avrebbero sconfitto e isolato i comunisti, procedendo poi alla modifica della Costituzione. Rispetto allo Schema «R», il Prd prevedeva la permanenza del bicameralismo, ma attribuiva «alla Camera preminenza politica (nomina del Primo Ministro) e al Senato preponderanza economica (esame del bilancio)», differenziandone i compiti istituzionali. Per i senatori si prevedeva l’elezione su base regionale, tenendo conto anche della «rappresentanza degli interessi economici, sociali e culturali» del territorio.
Il Prd conteneva altre controverse proposte quali: l’inemendabilità dei decreti leggi; la responsabilità civile dei giudici in caso di colpa e la separazione delle carriere dei magistrati (requirente e giudicante); la riduzione delle Preture alla sola funzione giudicante; il controllo delle maggiori testate giornalistiche e la dissoluzione della Rai-Tv «in nome della libertà di antenna»; la fine dell’unità sindacale, la riduzione delle festività e del diritto di sciopero; la ristrutturazione della scuola in senso selettivo-tecnocratico e l’«abolizione della validità legale dei titoli di studio»; la riforma tributaria e la «concessione di forti sgravi fiscali ai capitali stranieri per agevolare il ritorno dei capitali dall’estero»; un sistema elettorale misto (proporzionale e uninominale) e la riduzione dei parlamentari.
Si trattava di misure che miravano a «smantellare il compromesso socialdemocratico che era alla base del welfare» e a restituire «funzionalità decisionale e prestigio all’esecutivo», secondo le indicazioni fornite in un importante convegno della Trilateral Commission del 1975 da Michel Croizer, Samuel Huntington e Joji Watanuki. Molti punti del Prd sono stati effettivamente realizzati negli anni a venire, prima dai governi del “pentapartito”, poi da quelli di centrodestra e centrosinistra…
Da Gelli a Renzi
Gli ultimi due capitoli del saggio di Giannuli sono dedicati ad alcuni protagonisti della più recente storia repubblicana – Silvio Berlusconi, Umberto Bossi, Bettino Craxi, Antonio Di Pietro, Achille Occhetto, Marco Pannella, Matteo Renzi, Mario Segni – che, nel corso degli ultimi quarant’anni, hanno ripreso le idee di Gelli, anche se «nella maggior parte dei casi si è trattato di adattamenti, ricuciture, modifiche», senza l’esplicita o consapevole adesione al progetto piduista.
L’autore, in particolare, si sofferma a vagliare il percorso politico di Berlusconi e Renzi, i leader della Seconda Repubblica che più di tutti hanno messo maggiormente in discussione i capisaldi della nostra Costituzione proponendone sostanziali modifiche.
Berlusconi è stato l’unico Presidente del Consiglio formalmente iscritto alla Loggia P2 e il partito da lui fondato (Forza Italia) «è stato nello stesso tempo il frutto più maturo del programma della P2 e uno dei principali strumenti della sua attuazione», capace di plasmare quel «conglomerato del potere» auspicato da Gelli, mescolando «cattolici e massoni, socialisti e liberali, monarchici e repubblicani, fascisti e antifascisti, accomunati da una generica ispirazione anticomunista».
Nell’era berlusconiana sono riemersi scenari di sapore piduista – «gli scandali Verdini e Bisignani, rispettivamente designati come P3 e P4» – che testimoniano il persistere della cultura “lobbistica” gelliana in Italia, anche se nel diverso contesto internazionale della globalizzazione neoliberista.
Renzi, peraltro, sembra presentare un’indole simile a Gelli, essendo anch’egli «ricco di senso pratico, ma poco portato a teorizzare, di un agire politico più nutrito di astuzie che di visioni strategiche, con una sconfinata autostima». Tra il pensiero renziano e quello gelliano non mancano le analogie, soprattutto se si considera la vicinanza di Renzi alla destra repubblicana statunitense, testimoniata dall’amicizia di Luca Lotti – membro della segreteria nazionale del Partito Democratico e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio – «con quel Michael Ledeen a suo tempo buon amico della P2».
Il leader del Pd s’inserisce compiutamente nel solco tracciato da Gelli e Berlusconi e ne segue la stessa «traiettoria elitaria». Il dinamismo renziano sembra finalizzato all’avvento di una repubblica presidenziale sul «modello sudamericano», dove il capo del governo riceve l’investitura direttamente da una parte del popolo, svuotando il parlamento delle sue prerogative istituzionali. Le sue riforme, dunque, potrebbero sfociare in un vero e proprio «regime di partito», grazie anche alla legge elettorale che attribuisce un grosso premio di maggioranza a chi vince le elezioni.
Giannuli – in conclusione al saggio – esprime il timore che, in caso di vittoria del “Sì” nel referendum costituzionale, possa affermarsi in Italia un sistema oligarchico e si dichiara preoccupato perché «il programma di Gelli potrebbe essere non solo attuato ma addirittura sopravanzato». Questa sua inquietudine ci sembra pienamente condivisibile, anche se alla fine sarà il popolo italiano a decidere – con giudizio inappellabile – se mantenere l’attuale sistema costituzionale o avventurarsi dentro un nuovo modello politico dagli esiti imprevedibili.
Giuseppe Licandro
L’immagine di presentazione dell’articolo in home page è tratta da https://alganews.wordpress.com/.
(www.excursus.org, anno VIII, n. 78, dicembre 2016)