di GAE SICARI RUFFO – Le autrici di Donne nella Grande Guerra (Introduzione di Dacia Maraini, il Mulino, pp. 246, € 18,70), sono giornaliste e scrittrici che formano il collettivo di “Controparola” (tranne Marta Boneschi e Paola Cioni), diretto dalla Maraini, fin dal 1992. Raccontano il ruolo e il contributo delle donne durante la Grande Guerra e riempiono un vuoto che si era evidenziato da quando si è cominciato a parlare di conflitto bellico, un secolo fa.
Si trattò per le donne in genere di una chiamata diretta alla responsabilità fuori dalla famiglia. Dovettero sostituire gli uomini mandati al fronte e lo fecero con abnegazione ed impegno. Misero in luce le loro potenzialità ed espressero la loro forza d’animo e il coraggio di cui erano capaci. Poi, dopo la guerra, rientrarono nell’anonimato, ma la loro partecipazione non rimase senza significato, lasciò una memoria che qui si recupera.
Nel saggio ci sono profili di donne che furono infermiere, portatrici della Carnia, di cui forse pochi hanno sentito parlare, addette alla moda, interventiste, socialiste antimilitariste, inviate speciali, maestre. Tutte trovano una fervida forma di espressione per essere identificate e riproporre lo spirito del tempo.
Le infermiere sono le protagoniste in assoluto. Formano «un bianco esercito», come le descrive Elena Doni, presenti non solo negli ospedali, ma pure vicine al fronte per curare e soccorrere i feriti. Sono esempi di abnegazione e sacrificio. Una di esse, Margherita Kaiser Parodi, è sepolta al Redipuglia, tra 100.000 caduti, decorata con medaglia di bronzo, per essere rimasta eroicamente al suo posto durante un attacco. Si leggono questi versi che dicono la riconoscenza per il suo sacrificio: «A noi tra bende fosti di carità Ancella. Morte ti colse, resta con noi sorella».
La Croce Rossa nacque in Svizzera nel 1864, ma solo nel 1882 fu inserita nel nostro Paese, con decreto del Regno d’Italia, e fu dotata di uno statuto, approvato dalle autorità. Slancio, sacrificio e consapevolezza contraddistinsero le volontarie. Il loro numero salì fino a 8.500 unità. La duchessa Elena d’Aosta fu nominata ispettrice nazionale delle infermiere e si adoperò per regolare il corso di sostegno. La regina Elena, allo scoppio della guerra, trasformò il Quirinale in un grande ospedale. Lo racconta Cristiana di S. Marzano. Furono allestiti 275 letti: tolti i mobili, i quadri, le tappezzerie, nelle sale degli arazzi, degli specchi, dei corazzieri, del trono, furono creati bagni, sale di medicazioni, mense, una farmacia e un dormitorio per il personale d’assistenza . La regina era sempre molto presente ed attenta. In quegli anni, tra l’agosto del 1915 e l’aprile del 1919, infuriò pure la spagnola, epidemia che fece molti morti. Alla regina poi fu assegnata una laurea ad honorem dall’Università di Roma.
Francesca Sancin parla delle portatrici carniche, giovani donne addette ai rifornimenti, inserite nelle unità militari, che facevano la spola dai paesi vicini alla prima linea, per portare viveri e munizioni quando servivano. Più di duemila donne accettarono volontariamente di fare le portatrici. Con le loro gerle salivano ogni mattina per lunghe ore di marcia, dai magazzini del fondovalle fino al fronte, e poi, dopo un breve riposo, tornavano giù. Si caricavano sulle spalle munizioni, cibo, medicinali, attrezzi e andavano verso il Timau, vicino al confine con l’Austria, lasciando a casa i figli. Venivano pagate una lira e cinquanta centesimi a viaggio, circa quattro euro di oggi. Lo facevano per amor di patria, ma pure per bisogno. Appartenevano a famiglie povere e poi, fin da piccole, conoscevano bene quelle giogaie dove si muovevano con disinvoltura. Eppure rischiavano la vita, come successe a Maria Plozner Mentil, colpita da un cecchino, all’età di 32 anni, mentre rifaceva la strada per tornare a casa, o a Maria Silverio Matiz e a Maria Muser Olivotto. Le portatrici furono tutte insignite del Cavalierato di Vittorio Veneto ed ebbero gli stessi benefici dei combattenti.
Sono poi nel testo presenti le intellettuali: Eva Kühn Amendola, traduttrice dei grandi autori russi, madre di Giorgio, che scrisse un bel libro: Una scelta di vita. Il padre Giovanni, noto intellettuale antifascista, era stato bastonato dalle camice nere e si spense a Cannes nel 1926. Eva, sua madre visse molto più a lungo, fino al 1961, e fu una poetessa futurista. Si firmava Magamal. Fu grande amica di Marinetti e lo sostenne nel 1919, quando si presentò candidato nella lista dei Fasci di Combattimento di Mussolini. Soffrì di crisi mentali e per tutta la vita si dovette curare a tempi alterni.
Stefania Türr fu interventista e inviata speciale. Nel 1916 fondò il mensile La madre italiana. Rivista pro orfani, che incontrò il plauso della regina Margherita e fu pubblicato fino al 1919. Scrisse al Ministro della Guerra per chiedere di essere mandata in trincea. Dapprima la sua richiesta fu bloccata, successivamente accettata. Nacque allora il libro Sulle trincee d’Italia (1917), prezioso per la descrizione dei luoghi visitati e le sofferenze dei soldati. Il tono è però enfatico e ridondante, e tutto le si dispone in mente come trionfo della patria. A conflitto terminato matura in lei la grande idea dell’emancipazione femminile. Le donne devono avere il loro premio per aver risposto all’appello cui sono state chiamate, non una piccola “consolazione”, ma la partecipazione attiva alla vita pubblica con pari diritti rispetto agli uomini. Ma il tempo sarà ancora lungo. Il fascismo bloccherà ogni iniziativa in tal senso.
L’Italia al tempo della Prima Guerra Mondiale ebbe pure una donna spia: Luisa Zeni. Aveva vent’anni e lavorò per il gruppo irredentista, guidato da Cesare Battisti. Venne ribattezzata Josephine Muller, tedesca, residente a Trento e la sua prima missione fu di raggiungere Innsbruck. Partì verso Brescia, ma all’altezza di Peri, essendo interrotto il transito per un ponte fatto saltare sull’Adige, coraggiosamente fece il tragitto a piedi, attraversando le linee nemiche fino ad Ala. Venne fermata due volte, ma riuscì ad ingannare gli Austriaci. Ad Ala venne condotta negli uffici del comando e sottoposta ad un approfondito interrogatorio. Spiegò che era in fuga verso la madrepatria, dove si sarebbe sentita più sicura. La sottoposero poi ad una perquisizione che per fortuna non diede nessun esito. Non pensavano certo di aprire i bottoni della sua giacca dove erano nascosti indirizzi di agenti svizzeri a cui doveva mandare i suoi comunicati. L’ufficiale le diede un foglio di via per partire la sera stessa per Innsbruck. L’indomani, 24 maggio, fece appena in tempo ad arrivare che subito cominciò la sua missione nelle fila del nostro spionaggio.
Una missione per cui le occorse tutto il suo sangue freddo e la prudenza necessaria per non essere scoperta. Poi a sera, servendosi di un manuale cifrato, inviò i suoi messaggi, che dovevano essere molto precisi: papà stava per le truppe di fanteria, mamma per la cavalleria, fratello per l’artiglieria, figli per aeroplani. Luisa fu bravissima. Corse molte volte il rischio di essere scoperta. Una volta fuggì travestendosi da uomo, un’altra nascondendosi e saltando su di una barca di pescatori. La sua missione finì il 16 agosto del 1915. Quando rientrò a Milano fu festeggiata dai suoi amici e colleghi. Ma non se ne stette con le mani in mano: chiese di essere mandata negli ospedali per fare la crocerossina. Visse così fino al 1917, curando i feriti ed assistendoli. Contrasse però la tisi e si dovette curare. Quando D’Annunzio fece la marcia su Ronchi per liberare Fiume, lei andò lì per prestare il suo aiuto. Sembrò infaticabile, nonostante la sua incerta salute. Il governo fascista le riconobbe una medaglia d’argento e le offrì una piccola pensione ed un aiuto per curarsi.
Donne di ardimento raro, sia appartenenti alla classe socialista che alla destra, ma sempre devote alla patria e per essa combattenti.
Gaetanina Sicari Ruffo
(www.excursus.org, anno VII, n. 70, maggio 2015)