di ELENA COPPO – «Erano insieme: erano felici. I familiari, che non li perdevano mai di vista, si erano piazzati fra loro e li tenevano separati con dolcezza implacabile, ma il ragazzo e la ragazza sapevano di essere vicini, e il resto non contava. Era una sera d’autunno d’inizio secolo. Pierre e Agnès, i loro genitori e la fidanzata di Pierre stavano aspettando l’ultimo spettacolo di fuochi d’artificio della stagione». È così che inizia il romanzo I doni della vita di Irène Némirovsky (traduzione di Laura Fausin Gaudino, Adelphi, pp. 218, € 11,00), pubblicato postumo in Francia nel 1947 e in Italia per la prima volta nel 2009, nella traduzione di Laura Frausin Guarino. Se queste prime righe creano qualche perplessità, possiamo rispondere dicendo che sì, i protagonisti sono Pierre e Agnès e no, Agnès non è la fidanzata di Pierre, ma è la ragazza di cui Pierre è innamorato.
A Saint-Elme, cittadina del Nord della Francia dove ha inizio la vicenda, è chiaro a tutti che Pierre Hardelot e Agnès Florent non possono sposarsi, per via del divario sociale ed economico tra le loro famiglie. Il giovane Pierre è promesso a Simone, la ragazza perfetta per lui. Con tali premesse, il lettore è portato ad aspettarsi una classica storia d’amore, ostacolata dalle famiglie e dalle convenzioni sociali, e destinata a trionfare dopo molte peripezie. Ebbene, non è così: certo, l’amore vincerà, ma non sarà necessario aspettare fino alla fine. Pierre e Agnès saranno ben presto insieme, uniti nell’affrontare le sfide che riservano loro la vita e la storia ‒ una storia particolarmente difficile com’è quella della Francia della Prima metà del Novecento. La Grande Guerra li separa, portando Pierre a combattere al fronte e Agnès a fuggire a Parigi con la madre, i suoceri e il figlio in fasce; nel Dopoguerra, riuniti, partecipano alla ricostruzione di Saint-Elme, ma sono costretti a lasciarlo in seguito all’estromissione di Pierre dall’azienda di famiglia, durante la crisi economica degli anni Trenta; si trasferiscono quindi a Parigi con i figli, fino a quando il Secondo Conflitto Mondiale pone loro l’ultima grande sfida: mentre il figlio maggiore è al fronte, Pierre e Agnès sono infatti chiamati a fare ritorno a Saint-Elme proprio quando il villaggio sta per essere invaso dalle truppe tedesche.
La narrazione, che copre uno spazio di circa trent’anni, procede per “quadri” successivi: ogni capitolo si svolge a distanza di qualche mese o di qualche anno dal precedente, talvolta in una data importante, come quella del matrimonio di Pierre e Agnès, talvolta in un giorno qualunque, ad esempio un pomeriggio d’estate trascorso nel bosco vicino a Saint-Elme. Anche il punto di vista cambia, spostandosi da un personaggio all’altro ed ergendosi spesso al di sopra di tutti loro, mentre la lingua conserva sempre una scorrevolezza che la traduzione italiana rende perfettamente. All’inizio di ogni capitolo, al lettore bastano poche righe per immergersi negli eventi, per conoscere i personaggi e per comprenderne i pensieri e le emozioni. L’abilità dell’autrice, già apprezzata in Suite française (Adelphi), sta soprattutto nella sua capacità di penetrare in profondità nella mente e nell’animo dei personaggi e di portare alla luce con lucidità e naturalezza il loro mondo interiore, nascosto dalle convenzioni sociali o semplicemente dal pudore. Così, nella conversazione tra la signora Hardelot e la signora Florent, ci vengono svelati gli intricati ragionamenti e le sottili astuzie che si nascondono dietro ad ogni frase, mentre i momenti che Pierre e Agnès trascorrono insieme si caricano di una tenerezza che gli altri personaggi, semplici osservatori esterni, non sono sempre in grado di percepire.
Di fronte poi alla tragicità degli eventi storici, la prospettiva si allarga e, dai singoli personaggi, arriva ad inglobare un intero villaggio colto dall’improvviso terrore dell’invasione, o un’intera nazione che festeggia la vittoria senza provarne il trionfo. È in questi momenti che si nota maggiormente la somiglianza con Suite française, a cui l’autrice stava lavorando, del resto, nello stesso periodo. Anche qui si descrive un’umanità che va avanti nonostante la guerra, con un’ostinazione tanto irrazionale quanto coraggiosa: «Si andava a dormire, ci si alzava, si mangiava pensando alla guerra. Si sognava la guerra. E la cosa più strana era che si poteva continuare ad andare a letto, alzarsi, mangiare e dormire nonostante la guerra». Anche Pierre e Agnès «pianificavano il futuro senza fretta, con cautela, a suon di piccole frasi reticenti, prudenti, come un bambino costruisce un castello di carte trattenendo il respiro. Ma il bambino sa che il castello è fragile; loro, invece, da bravi borghesi, erano sicuri del loro domani».
I valori borghesi del decoro e della rispettabilità, così spesso presi di mira da Irène Némirovsky nelle sue opere, occupano anche qui uno spazio importante. Certo, dietro la facciata rispettabile, dietro le convenienze, si possono nascondere animi vili e meschini. Tuttavia, i protagonisti dimostrano che questi stessi valori possono condurre a grandi atti di coraggio quando si traducono, da una parte, nel rispetto per se stessi e, dall’altra, nel senso di responsabilità verso gli altri, nella volontà di essere per gli altri un modello, una guida, come sapranno esserlo i protagonisti alla fine del romanzo.
Ma Pierre e Agnès sono, prima di tutto, un punto di riferimento l’uno per l’altra e in ciò sta la loro forza. È un amore semplicissimo, sincero, senza incertezze, senza sospetti, senza rimpianti. Non si tratta di sovrumana perfezione, ma solo di un sentimento potente, di un legame indissolubile di cui entrambi sono consapevoli. Pierre intuisce, la prima notte di nozze, che quel legame «traeva origine da una zona più fluida della carne, più calda dell’anima», e Agnès conclude più tardi che si tratta di «un grande mistero, oltre che un’immensa fortuna». È questo legame, senza dichiarazioni appassionate né gesti eclatanti ‒ persino i pochi baci che si scambiano in pubblico sono frettolosi, imbarazzati, al punto che la madre di Pierre li giudica freddi ‒ che permette loro affrontare le avversità con coraggio e fiducia, mettendo da parte “i doni della vita” con la certezza di poterne godere, un giorno, insieme. Irène Némirovsky ci ricorda che esistono anche amori non folli, ma non per questo banali, e discreti, ma non per questo meno veri.
Elena Coppo
(www.excursus.org, anno VIII, n. 74, luglio-agosto 2016)