di ROSSELLA FARNESE – «Non hai il pallino dei bei tempi andati. Ogni volta che ti capita di scivolare in uno stato d’animo nostalgico e piangere la perdita delle cose che sembravano rendere la vita migliore di quanto non sia oggi, dici a te stesso di fermarti a riflettere bene. Riguardando l’Allora con la stessa severità con cui guardi l’Adesso, e in breve concludi che c’è poca differenza fra l’uno e l’altro, che Adesso e Allora grosso modo sono uguali»: ritmo e ricordi scorrono tra le pagine del Diario d’inverno di Paul Auster, edito da Einaudi nel 2012 nella traduzione di Massimo Bocchiola (pp. 185, € 12,00).
Un Paul Auster proustianamente à la recherchedu temps perdue che sembra dialogare, quasi sottovoce, con se stesso, con un respiro franto che accelera e si spezza, poi riprende a tratti, si riassesta, si frantuma, avanza. Un Paul Auster bergmaniano che ha superato la soglia dei fatidici “anta” e risale in modo quasi cavilloso verso il proprio edenico posto delle fragole in un libro atipico che sa di archivio narrativo, tra eventi e date puntuali, sospeso tra la nostalgia e la penombra della solitudine. Un testo autobiografico non cronologico ma intermittente come una pellicola che si riavvolge di continuo e mostra un Paul Auster umano, che fa, ad esempio, un elenco delle sue ferite da bambino, racconta il suo primo attacco di panico, descrive i luoghi in cui è vissuto, riesplora le case dove ha abitato, ripensa ai suoi amori: «Tante cotte e tante piccole storie nel periodo iniziale della tua vita, ma solo due grandi amori, i cataclismi di metà adolescenza e fine adolescenza che si rivelarono entrambi disastri, seguiti dal tuo primo matrimonio che terminò in un disastro anche lui».
Winter Journal è soprattutto la geografia di un corpo, di un corpo che entra nell’inverno della vita, di un corpo che ricorda con rughe e cicatrici l’essenza del nostro essere: «Quello che preme su di te, che ha sempre premuto su di te: l’esterno, nel senso dell’aria – o più esattamente, il tuo corpo nell’aria attorno a te. Le piante dei piedi ancorate al suolo, ma tutto il resto di te esposto all’aria, ed è lì che la storia comincia, nel tuo corpo, come nel corpo finirà tutto». Fil rouge quindi del Diario d’inverno la fisicità: le sensazioni corporee che accompagnano l’autore e invadono il lettore sin dalle prime pagine travolgendolo a cascata. «Il vento in faccia durante la tempesta di neve della settimana scorsa. La puntura terribile del freddo e tu là fuori, nelle vie deserte […] anche mentre ti affannavi per non perdere equilibrio, c’era l’esaltazione di quel vento, la gioia di edere le solite strade trasformate in un turbinio confuso di neve bianca. Piaceri fisici e dolori fisici».
Diario d’inverno è un inno alla vita in senso malickiano, celebra cioè la bellezza e la pienezza del vivere e dello scrivere – nel caso di Paul Auster ‒ che si basa sull’attenzione al dato sensibile e sulla passione: «Starnutire e ridere, sbadigliare e piangere […] quanti inciampi, scivoloni, cadute? Quanti battiti di palpebre? Quanti passi fatti? Quante ore passate con una penna in mano? Quanti baci dati e ricevuti? Prendere in braccio i tuoi bambini. Abbracciare tua moglie». Il resto è inverno!
Rossella Farnese
(www.excursus.org, anno XI, n. 91, marzo-aprile 2019)