di SALVATORE GASPA – Gian Mario Villalta, autore de La costanza del vocativo. Lettura della “trilogia” di Andrea Zanzotto (Guerini e Associati) e delle sillogi poetiche Nel buio degli alberi (Circolo Culturale di Meduno) e Revoltà (Biblioteca Civica di Pordenone), è al centro del dialogo-intervista, curato da Alberto Carollo, Dialogo con Gian Mario Villalta (Edizioni Saecula, pp. 104, € 10,00). Il percorso di questo Dialogo si dipana dai ricordi dei primi studi, dove la poesia diventa l’interesse principale di Gian Mario Villalta, e dell’incontro con Zanzotto, momenti che segnano decisamente l’esordio poetico significato dalla raccolta Traccia (Niemandswort) e dalle poesie apparse sulla rivista Alfabeta.
Dopo questa prima parte, l’autore si dilunga con riflessioni sulla rivoluzione culturale del “sistema libro”, una rivoluzione che, come noto, porta il libro in primo piano fino all’avvento dell’e-book. In questa riflessione sul mondo editoriale e sulla situazione storica in cui esso si trova si inserisce il ricordo dell’iniziativa che lo ha mosso, negli anni, ad avvicinare autori e lettori di poesia: gli incontri intitolati La voce della poesia dei primi anni Novanta del secolo scorso, cui partecipano Zanzotto, Fortini e molti altri. Sono gli anni «in cui si consumava la gloriosa stagione della poesia neodialettale».
Alla parola e al territorio è dedicato il capitolo terzo del dialogo con Carollo. Gian Mario Villalta ricorda come l’incontro con la poesia dialettale abbia due precondizioni: l’attingimento «al dialetto vero, quello parlato dal poeta e lontano dalle convenzioni vernacolari», e la qualità del lavoro poetico consistente, per usare le sue parole, in un «trattamento in termini di poesia alta, sulla linea della grande tradizione europea, tutt’altro che ‘dialettale’». Nel suo caso, la scelta identitaria di scrivere in dialetto si accompagna a un lavoro di scrittura poetica dove la scelta linguistica – italiano o dialetto – si associa a una scelta anche di temi e stili differenti.
Il «luogo di minima resistenza» è la lingua vista da Villalta, strumento di conoscenza dell’«io in relazione al proprio vivere». Un «luogo di minima resistenza» che è anche malattia, essendo il suo vivere il mondo dialettale e il formarsi di un’identità già intaccati dal progresso degli anni dell’infanzia e giovinezza. Si sarebbe portati a leggere quello di Villalta come il dato tutto personale della vicenda umana e poetica di un giovane del paese di Visinale. Ma questo «sentirsi togliere la terra sotto i piedi mentre impari a camminare», questo intravedere un’alba «della quale la luce del giorno ha mutato i contorni» è visto dal poeta in stretta simbiosi con i grandi processi storici che hanno interessato il macrocosmo sociale, economico e antropologico del mondo contemporaneo, dalla scomparsa della civiltà contadina al declino dell’industria manifatturiera europea.
Di più, questo perdere la terra da sotto i piedi, questo intravedere albe dimenticate o forse solo sognate non impedisce al poeta di trovare un proprio radicamento, privilegio e pena che appariva proprio di chi, ad esempio nella generazione di Zanzotto, aveva vissuto il “paesaggio” per la prima volta in assoluto e poi il suo successivo mutamento. La terra e l’alba di chi, come Gian Mario Villalta, scrive nell’età neodialettale continuano ad appartenere a coloro i quali vivono quella terra e quell’alba. Perché sono eredità e memoria, doni o pegni che portano inevitabilmente con sé anche la «responsabilità della memoria». Anche se questa memoria nasce già intaccata.
Muovendo dal riferimento al lavoro di Gian Mario Villalta Parlare al buio (La capra 1), uscito nel volume Sconfinare. Il nord-est che non c’è (Fernandel), l’intervistatore interroga l’autore sul suo rapporto con il territorio, quel luogo/non-luogo chiamato da molti, infelicemente, “nord-est” e oggi in via d’estinzione. In quell’opera si consumava plasticamente la distanza tra il mondo del narratore e quello del personaggio incarnato dal ragazzo col telefonino, ottusamente amorevole nei confronti della capra, suo pet friend. Nel narratore vi era il rifiuto e la nostalgia della vita contadina e, con essi, il silenzio parlante di quel mondo; nel ragazzo il silenzio si era semplicemente perso, sostituito dal vuoto autodistruttivo e dalle simbologie e pratiche della globalizzazione.
Nella sua valutazione di cosa sia oggi il “nord-est” – non più miracolo o condizione, ma processo di livellamento culturale forse divenuto globale – Gian Mario Villalta non esita, sulla scorta delle osservazioni di Mauro Covacich, a parlare di “migrazione”. Quella dei dialetti verso il mondo industriale come esito della trasformazione del mondo contadino in quello manifatturiero senza che vi fosse scissione tra queste realtà. In un’ottica che considerava la geografia di questa trasformazione, “nord-est” erano i capoluoghi minori, i paesi, contrapposti alle città. Oggi questa dicotomia semplicemente non esiste, avendo la globalizzazione investito tutti, città e paesi, nelle loro antiche diversità produttive e comunicative, antropologiche e culturali.
È senz’altro condivisibile la tesi di Villalta, il quale sostiene che nel mondo triveneto (definizione migliore di “nord-est”) sia sostanzialmente mancata una classe di imprenditori che abbia compreso come la cultura sia parte integrante della società e che, di conseguenza, abbia visto nell’investimento nel mondo editoriale o, più in generale, nella cultura una fonte di profitto e uno strumento di influenza sulla realtà sociale e politica. La conclusione cui si giunge con il poeta di Visinale è che i triveneti oggi perseverino in una rappresentazione autofustigante e autodistruttiva del “nord-est”, lamentando mancata visibilità o rappresentatività a livello nazionale, mentre a livello locale la prassi provinciale del “farsi gli affari propri” trionfa, parcellizzando sempre più le iniziative mirate a fare cultura in senso intelligente e rendendole sempre meno udibili al resto del Paese.
Con lucida analisi e onestà, Gian Mario Villalta riconosce che la grande narrazione del “nord-est”, fatta da quegli scrittori triveneti che lo hanno annunciato e da quelli, a seguire, che ne hanno vissuto le trasformazioni e il declino, è sostanzialmente conclusa, mentre «quello che resta al Triveneto rischia di essere un pulviscolo di realtà locali, che si negano reciprocamente, e che autoriflettono la propria condizione di esistenza. Il cosiddetto glocal, fusione ed esasperazione insieme del locale e del globalizzato, trova nel Triveneto il proprio trionfo, con tutte le differenze che si possono riscontrare.»
Villalta è anche direttore artistico di Pordenonelegge, un’iniziativa sorta per avvicinare scrittori e lettori che non solo è oggi parte integrante della cultura della vivace città friulana, ma ha anche portato all’emersione un gran numero di esperienze letterarie locali, come ricorda l’autore a Carollo. Questo festival è stato capace di diventare interprete autorevole di alcune delle nuove tendenze culturali in atto. Il segreto è stato quello di «costringere la maggior parte dei soggetti pubblici e privati a partecipare alla manifestazione», coinvolgendo e interloquendo con scrittori, editori e soprattutto lettori in maniera aperta e senza rincorrere l’autocompiacimento e il divismo di autori e professionisti del settore, facile esito di molti (troppi) festival e premi letterari che ogni anno si celebrano in Italia.
Nel capitolo Guardare le figure, l’intervistato torna sul tema dell’editoria e su quello ormai consunto della crisi del libro e dell’avvento dell’elettronica, nonché di quello relativo alla crisi di mutazione della poesia. Decisamente più interessanti per il lettore le pagine sull’attività di narratore di Villalta. Lo scrittore guarda all’esperienza degli ultimi romanzi nei termini di un «realismo di ciò che è meno in luce» e di un «autobiografismo antropologico», ambiti da cui ritiene doversi allontanare negli ultimi tempi, dopo soprattutto il brillante lavoro Alla fine di un’infanzia felice (Mondadori).
Come brillante è certamente anche l’opera intitolata Satyricon 2.0 (Mondadori), segno di una raggiunta consapevolezza storica da parte dell’autore che «l’unica vera costante della Penisola, fin dall’antichità, è quella deformazione comica (a volte lirica, a volte grottesca) che tiene insieme sublime e triviale». Proprio grazie al confronto con l’opera di Petronio, Villalta crea una satira corrosiva sulla realtà italiana dei tempi in cui viviamo, pur ammettendo che il libro, in ultima analisi, è lettura non facile per le molte allusioni e per lo stravolgimento operato dal grottesco e dalla parodia.
Il Dialogo si presenta come lettura interessante, nel complesso, per comprendere l’autore seguendo le riflessioni ed esperienze. La chiacchierata con lo scrittore di Visinale di Pasiano, condotta da Carollo con intelligenza, curiosità e attenta preparazione, è infine arricchita da due brevi interviste a Stefano Dal Bianco, fondatore della rivista di poesia contemporanea Scarto minimo, e ad Alberto Garlini, uno dei curatori di Pordenonelegge. Di entrambi si raccontano l’incontro con Villalta, le esperienze comuni, nonché gli elementi di convergenza e divergenza nei rispettivi percorsi letterari.
Salvatore Gaspa
(www.excursus.org, anno IX, n. 83, giugno 2017)