di DOMENICA RIGGIO – Violenza, Intimidazione, Controllo, Potere. Illegalità, Attività economiche e imprenditoriali di oscura provenienza. Gerarchie, ferree Regole, Organizzazione. Onore. Criminalità.
È questa la Mafia? È questa Cosa Nostra? Vi è una definizione completa e appagante?
Vi è una sola parola che possa davvero descrivere l’orrore, lo scempio, il disgusto, il sangue versato, le lacrime raccolte? Dietro quel maledetto termine si cela l’infinito martirio di una terra che apre i suoi “confini” oltre “le colonne d’Ercole”.
Chi con reale interesse, chi perché è giusto farlo, chi per vivere, chiunque scrive di Mafia, e c’è chi lo fa perché crede di avere onestà e coraggio intellettuale (e forse non soltanto quello).
Catena Cancilleri è una donna siciliana, è una scrittrice siciliana trapiantata al Nord che con nostalgia e amara delusione pensa alla sua regione, al cancro che la devasta e alle battaglie, difficili e complesse, fatte per vincere una guerra secolare. «Erano tempi terribili: stragi atroci, bimbi ferocemente torturati e poi sciolti nell’acido, attentati, guerre “fratricide”. Scenario di questa guerra senza fine, dove morte chiama morte, è la Sicilia».
Di famigghia (Nulla Die Edizioni, pp. 182, € 18,00) è un libro che “semplicemente” racconta le storie di chi giorno dopo giorno affronta a testa alta o dannatamente affossata nella sabbia, la vita; di chi decide con consapevolezza quale sarà il futuro per i propri figli; di chi mette a rischio l’esistenza propria e altrui; di chi impugna, ferisce e perisce; di chi comanda, viola, corrompe, uccide; di chi ama e di chi lotta. «Anche lei doveva opporsi a quel clima di terrore che aveva caratterizzato la sua vita sin dall’infanzia! Anche lei doveva educare i propri figli secondo altri codici d’onore! Anche lei doveva far sentire la propria voce e pretendere un futuro migliore per la propria progenie!».
Racconti brevi, fatti accaduti e altri inventati con “materialistica” creatività; ricordi, elaborazioni di cronaca scritti con un ritmo rapido in un turbinio di parole ricercate ma dirette. Una comunicazione attenta, come il codice linguistico che l’autrice utilizza per spiegare i “segreti” dell’“Associazione”: «Se si è “uomini” non si parla e, soprattutto, non si pronunciano parole come “picciotto”, “capo decina”, “capo mandamento”, “famiglia”, “commissione provinciale”. Termini come questi possono risultare pericolosi e pertanto è meglio non usarli, ometterli, celarli sotto altra “forma”».
Un libro per chi ha coscienza o pensa di averla, per chi obiettivamente vede, sente, parla, rifiuta, accetta. Un libro per famiglie e di famiglie più o meno pulite, più o meno mafiose, più o meno taciturne, più o meno temerarie. Una prosa dall’accento isolano, ripetizioni, assillanti ripetizioni, come vuole che si rispetti l’antica e nobile tradizione sicula della narrazione orale: «Non si poteva negare l’evidenza! Non era una novità!».
Eleganza di stile e sensibilità, sensibilità per le donne come Lucia «che aveva deciso di rompere quegli “equilibri”», o come Anna «che non era riuscita a sopportare tutto questo! Forse era stata presa dalla depressione a causa della storia del fratello Salvo che, alcuni anni prima, si era deciso a collaborare con la giustizia», o ancora Elvira, «pronta a strapparsi di dosso l’etichetta di figlia e sorella di mafiosi per indossare le vesti di testimone di giustizia!».
Torbidi rapporti, in bilico tra collusione e aperti conflitti, fra lo Stato, a volte cieco, e il potere criminale. È necessario ricordare gli eroi: «Fermezza! Era questa la parola chiave per comprendere la morte di quel giudice. All’interno di uno Stato che con complicità lavorava per la TRATTATIVA, lui non aveva scampo. Lui e il suo amico, quell’altro giudice morto ammazzato giusto qualche settimana prima, stavano facendo emergere connivenze che dovevano continuare a rimanere nascoste».
Un libro che senza censure né retorica fotografa e dipinge i fatti che hanno segnato e che segnano inesorabilmente la storia della Mafia, la sua evoluzione che tenta di offuscare le menti di una società pronta a schierarsi con i più forti, con chi gestisce il potere, con le istituzioni corrotte. Una società civile che, però, grazie alle leggi antimafia ha indebolito l’“Organizzazione”, ne ha smantellato qualche tassello e dove la speranza rimane: sì, rimarrà finché il Bene combatterà il Male, finché gli uomini vivranno e finché ce ne sarà anche uno solo, uno soltanto tra loro che vorrà «rinascere, assurgere a nuova vita», e allora quello sarà il «giorno di rinascita, di fioritura, di nuovo inizio».
Domenica Riggio
(www.excursus.org, anno VIII, n. 73, giugno 2016)