di SARA SANTORO – «Il comandante annunciò che in Niger facevano trenta gradi e c’era una tempesta di sabbia. Stavo tornando a casa, dove il vento soffia così forte che solleva la terra». Le parole esordienti non sono altro che le riflessioni di Ibrahim Kane Annour, protagonista e autore, con Elisa Cozzarini, del libro Il deserto negli occhi (nuovadimensione, pp. 204, € 14,50), nato l’11 agosto del 1966 ad Azzel: un’infanzia e una vita, le sue, non comuni.
La citazione riflette un ritorno nel deserto così tanto desiderato, dopo aver sperimentato luoghi appartenenti ad un mondo completamente diverso da quello di un tuareg. Il vento e la sabbia tornano ad avvolgere un imohar, un uomo libero, ormai capace di muoversi in uno spazio infinito.
I tuareg sono un popolo nomade, tipico del Mali e del Niger, consuetudinario di uno stile di vita operoso. Un nomade è sempre pronto a spostarsi e il protagonista, giunto in Italia, persegue quest’abitudine. Nonostante la mancanza di lavoro, egli non si arrende. È sempre alla ricerca di nuove esperienze che possano remunerarlo. «Essere sempre forte. Tenere alta la testa. I tuareg dicono che ogni cosa ha un inizio e una fine, e così anche la crisi un giorno sparirà». Uno spirito, quello dell’autore, da cui l’Italia, in quanto popolo troppo statico, dovrebbe prendere spunto.
Il deserto, il luogo dal quale prendono avvio i primi capitoli, è allo stesso tempo enorme ma favorevole ad una meditazione capace in pochi istanti di interiorizzare l’immensità che il luogo stesso manifesta. L’autore più volte fa riferimento alla profondità e alle diverse sensazioni che si provano in questa zona arida. E quando si è lontani da essa, proprio le sue emozioni sono le più nostalgiche. E il loro ricordo malinconico subentra nell’incapacità di stabilire dei punti di riferimento in un paese dell’Italia, che è molto più piccolo dell’infinita area desertica.
Questa storia, nonostante la volontà di marcare, come già detto precedentemente, che il protagonista ha avuto un’infanzia e una vita non ordinarie, aspira allo stesso tempo a creare, in parte, una identificazione. Un tuareg può immedesimarsi in qualsiasi individuo che, spinto da una scelta, deve partire: è quindi costretto ad abbandonare il proprio luogo di origine, il privato nucleo affettivo, le proprie abitudini. «La mamma e la nonna non potevano chiamarmi con il mio primo nome, Annour, perché è lo stesso di mio nonno paterno. Il rispetto obbliga a non pronunciare mai il nome del suocero. Mi chiamavano Tchoucan, colui che si adatta, che sa fare tante cose».
Non solo dalle testimonianze del protagonista stesso, ma anche dai consigli che l’autore riceve da suo padre e dai suoi zii durante gli interminabili viaggi turistici nelle carovane, scaturisce un principio fondamentale, che sta alla base di tutto il racconto. I nomadi tuaregnella loro povertà celano un’abbondante ricchezza: una tradizione e una cultura conservatrici. Se da un lato, però, per alcuni aspetti la tradizione è intesa come concetto concordante con il nostro, dall’altro cela un elemento proibitivo che ai nostri occhi risulta inammissibile. La Cozzarini evidenzia l’impedimento: «tra i tuareg i sentimenti sono un aspetto intimo della persona, è considerato pericoloso e indecente renderli pubblici». Ciò spiega la difficoltà di Ibrahim nell’approcciarsi a Gheishita, il suo primo amore. Anche in questa circostanza è sublime il modo semplice ed esaustivo di descrivere in poche righe l’esteriorità della ragazza.
Un racconto che inizialmente è ovvio perché espone minuziosamente la storia del primo attore, che altro non è che un migrante. Ultimamente è semplice scrivere storie personali e carpire l’attenzione del lettore, basando l’operato su una narrazione vittimistica. Ma in fondo la scrittura migrante, con la sua caratteristica di insistenza, vuole elidere questo pensiero così diffuso e svegliare le menti spensierate. Il suo obiettivo non è quello di architettare un alone di negatività intorno alla vita di un individuo, ma di metterlo a conoscenza del mondo che lo circonda.
Ciò che discosta un tuareg da un tipico cittadino italiano è l’acutezza di sapersi sudare e guadagnare la libertà, nonostante una vita obbligata. Una libertà le cui prime forme sfumate sembrano delinearsi in un altro assunto peculiare e variopinto: il viaggio. Bisogna viverlo e affrontarlo per poterlo spiegare. La semplice descrizione dei numerosi cammini non basta per trasmettere contemporaneamente l’aridità e le problematiche che il paesaggio stesso ostenta.
Anche se dall’elaborato non sono comprensibili le essenziali sfaccettature del suo carattere, l’interprete è da ritenere un modello ammirevole. Questo lo intuiamo dagli eventi che più lo caratterizzano e lo interessano. Ed è proprio il viaggio nel deserto uno degli avvenimenti che ogni volta che si ripete, dà all’autore la particolarità di essere immancabilmente innovativo. Egli è felice di poter contagiare tutti i turisti che incontra, con una malattia dalla quale, secondo lui, non si può guarire. Una malattia che riguarda lo sbigottimento dinanzi ad una natura che non ha voce e nella quale non si può predicare. È un male annidato in una condizione cronica.
La salvezza da questo male può essere quella di crogiolarsi nel ricordo e ripartire da esso verso una vita migliore, sempre più autentica. Comunque un’esistenza accettata solo per non essere uccisi e per non dover essere costretti a sottostare a leggi e condizioni che sono completamente in discordanza con la libertà tanto acclamata dal protagonista. Come è possibile che la comunità tuareg e soprattutto i turisti vengano trasecolati da un ambiente tanto assetato?
Sara Santoro
(www.excursus.org, anno VII, n. 69, aprile 2015)