di VERONICA BERGAMELLI – Grazie al sacramento della confessione, in De La Tour. Il peccato del tennista (Gilgamesh Edizioni, pp. 212, € 10,00) troviamo due visioni della vita appartenenti a personaggi singolari che si specchiano a quattrocento anni di distanza. Uno di essi è l’apprendista Claude mentre l’altro è il giudice Edmond Darrel che condivide, non solo il nome di battesimo con il famoso Dantés, conte di Montecristo, ma anche un destino segnato dalla vendetta che, per il protagonista dell’epoca moderna, diviene la sua motivazione alla vita.
«È l’odio sano, non quello accidioso, impotente, autolesionista e fine a se stesso, bensì quello energico e salvifico che ti dà le motivazioni e l’energia giusta per agire, che somministra ai tuoi tessuti provati il necessario nutrimento». Solamente la speranza e la fiducia nella giustizia che si poteva fare personalmente, a dispetto della legge e della sua carica di giudice, gli danno la forza di reagire all’inermità esistenziale in cui era sprofondato.
Diventa «paziente e silenzioso, come un serpente che punta un topo» in attesa di sferrare l’attacco letale di uccidere tutti coloro che hanno rovinato la sua vita. Si sente come Denzel Washington in Man on Fire. Il fuoco della vendetta. Egli, infatti, come un giustiziere sequestra, tortura e uccide i fiancheggiatori e i membri della banda che, mano a mano gli svelano le informazioni necessarie per proseguire nel suo piano di regolamento dei conti, fino ad arrivare al vero e proprio capo di essa, e solo allora, riuscirà ad arrivare al bandolo della matassa che lo collega con un sottile filo rosso al periodo culturale francese del 1600.
Epoca in cui viveva Georges De La Tour (Vic-sur-Seille, 10 marzo 1593 – Lunéville, 30 gennaio 1652, pittore francese, esponente del barocco, fortemente influenzato dal caravaggismo) e uno tra i suoi vari apprendisti: Claude Baccarat.Egli, attraverso le sue confessioni, fa respirare al lettore il clima culturale di quel periodo in cui il suo Maestro cerca di distinguersi dagli autori di quadri a lui contemporanei attraverso l’uso di tecniche artistiche particolari, che egli rivendica come proprie. Ed è proprio una di queste sue tele che giocherà un ruolo centrale nella storia di Edmond.
Il dipinto in questione è Le Nouveau-né. In esso il buio della casa in cui è apparso il Salvator Mundi, il Neonato più famoso della storia, è impenetrabile. Non si vede nulla oltre a Maria. Non sappiamo neppure se si tratta della grotta in cui c’erano asino e bue. Questo luogo è solo pieno della notte. Accadde qui il miracolo, proprio come in certi momenti della nostra vita, in cui si fatica a vedere il futuro. L’artista ci fa entrare al cospetto della Vergine dietro una donna distinta seppure popolana; ci fa strada e la sua candela illumina di colpo il luogo dove dorme quel misterioso Bambino. Entriamo dietro il tremolio della candela eppure non possiamo vedere quella fiamma. Nulla deve ostacolare la visione di questo Bambino tenuto da Maria tra le proprie braccia. Lei è scultorea, protettiva, veste il rosso sangue (la passione che investirà il Figlio suo, portandolo alla morte). In quanto presaga del destino di Gesù è un po’ mesta, non è la giovane madre radiosa che si rallegra della creatura appena partorita. Eppure quel Bimbo è la sua pace e la nostra pace. La luce del dipinto, infatti, non viene per nulla dalla tremula fiamma della candela che ci ha introdotto qui. La luce del dipinto viene da Lui. Essa è la fede che illumina i panorami oscuri della storia e cerca di ricondurli al contatto col divino.
Il quadro precedentemente descritto cambierà per sempre sia la vita di Claude che quella di Edmond seppur a tanti anni di distanza l’uno dall’altro. Per entrambi costituirà motivo di peccato e richiesta di redenzione a Dio. Riguardo all’esistenza di quest’ultimo, Baccarat ne è fermamente convinto e confida nella Sua «infinita comprensione» per ottenere il perdono; mentre Darrel, incarnando il dubbio tipico dell’uomo contemporaneo (il buio nel quadro di De La Tour) riguardo alle questioni religiose, sostiene che per lui «l’esigenza di […] confessare le mie colpe forse risponde ad un bisogno inconscio e irragionevole di condividere con altri i proprio peccati in una sorta di espiazione sociale, ma oggi ancora non so veramente credere che Dio esista».
Un thriller, un giallo, un noir… questo volume non ha un genere letterario ben definito.
Scava all’interno dell’animo umano, nelle nostre paure e desideri più nascosti e inconfessabili. Porta a vedere il lettore come l’essenza umana sia costituita sia da un cigno bianco che da uno nero… ed egli è chiamato a convivere con questi due aspetti, rendendosi conto che non è un essere candido e perfetto, ma che in lui alberga anche il male e che deve essere in grado di rischiarare queste tenebre con la luce per non soccombere e gli dà anche uno fiaccola per aiutarlo a rimettersi in piedi dopo aver peccato: la confessione.
Nel volume il lettore troverà anche una serie di figure che illustrano dipinti o immagini che i protagonisti evocano nella propria mente. A nostro parere, se esse a volte esplicano il concetto espresso nella narrazione, in altre intralciano quest’ultima rendendola meno fluida. Lasciamo ai destinatari di questo libro di decidere tra sentenza e se se sia meglio tenerle per esemplificare quanto viene descritto, oppure se siano un orpello eccessivo e quindi da eliminare.
Veronica Bergamelli
(www.excursus.org, anno VIII, n. 77, novembre 2016)