di FEDERICA CHIMENTON – Chi oramai non ha sentito nominare almeno una volta il nome di Vivian Maier, la semisconosciuta tata che negli anni ’50 si dilettava nel tempo libero a scattare fotografie per le strade di New York e Chicago con la sua Rolleiflex e le cui foto ora valgono milioni di dollari? Ciò che colpisce di più di questa figura rimasta nell’ombra per tantissimo tempo è proprio che di lei si sa pochissimo, e quello che si sa non è nemmeno molto certo. Tra le poche informazioni di cui oggi disponiamo, il biennio 1954-1955 è l’unico in cui c’è una totale assenza di informazioni. La ricostruzione romanzata di questi due anni è ciò che ha provato a fare Francesca Diotallevi nel libro Dai tuoi occhi solamente (Neri Pozza, pp. 208, € 16,00).
Prima di analizzare la storia raccontata da Francesca Diotallevi, facciamo un passo indietro e proviamo a rispondere alla domanda Chi era Vivian Maier?
Vivian nasce nel 1926 da madre francese e padre austriaco, ma la sua infanzia resta avvolta nel mistero più totale. Sappiamo che visseper un periodo a New York con la madre condividendo la casa con Jeanne Bertrand fino all’età di quattro anni, e fu molto probabilmente Jeanne – rinomata fotografa ritrattista dell’epoca – a introdurre Vivian all’arte fotografica. Dopodiché la ritroviamo in Francia con la madre e una zia, Marie Florentine, e insieme intervallano periodi in Francia e in America. Ritorna nel Nuovo Mondo nel 1939, per poi tornare in Francia nel ‘49, anno in cui – secondo le fonti – prese in mano la prima macchina fotografica Kodak Brownie. Rientradefinitivamente a New York nel 1951 senza la madre.
L’anno dell’acquisto della macchina fotografica che l’avrebbe contraddistinta, la Rolleiflex, risale al 1952: sono gli stessi anni in cui lavora come tata, passando di famiglia in famiglia e nel frattempo scatta fotografie nel suo tempo libero. Nel 1956 si trasferisce a Chicago dove utilizza il bagno come camera oscura, sebbene la quasi totalità delle fotografie scattate– si parla di circa centomila negativi ritrovati– non siano mai stati sviluppate. Da quel momento in poi le sue tracce diventano ombre, le stesse che assalgono le sue fotografie.
Lavora per diverse famiglie e nel frattempo cambia la macchina fotografica passando ai colori. Non si sposa mai faticando a raggiungere l’indipendenza economica e, verso la fine dei suoi anni, alcuni bambini che aveva accudito le pagano il soggiorno in una casa di riposo per anziani. Tutti i suoi averi, materiali e non, ma soprattutto i circa 100.000 negativi che possedeva frutto di decenni di scatti, finiscono in un deposito che va all’asta, a causa dei debiti e dei mancati pagamenti dell’affitto.
Gli effetti personali di Vivian finiscono così in mano a tre collezionisti, tra questi un certo John Maloof acquista 30 mila negativi nel 2007. Il resto è storia. Maloof capisce l’entità del materiale che ha comprato per caso e a poco, diffonde le foto e il mito di Vivian Maier – la tata-fotografa invisibile che ha dato un supporto importantissimo alla streetphotography –inizia a prendere vita. Vivian muore infine nel 2009 a 83 anni in una casa di riposo per anziani dopo aver visto assaggiato gli effetti della potenza delle sue foto, grazie anche alla nascita della Vivian Maier Foundation, promossa dallo stesso Maloof.
Come può dunque Dai tuoi occhi solamente ripercorrere i due anni più oscuri della vita di Vivian in modo così vivido e appassionante? Prima di tutto si tratta di un romanzo, Francesca Diotallevi ricostruisce la vita della fotografa dosando in punta di piedi i fatti storici appurati, ricostruendo sì quindi la sua vita; allo stesso tempo indagando in profondità sulla natura del talento di Vivian e sull’importanza dell’arte in ogni sua forma – dalla fotografia alla scrittura – come mezzo per tentare di estirpare un dolore sordo mai sopito che àncora la nostra protagonista al suolo, impedendole di spiccare il volo ed essere libera una volta per tutte.
Il romanzo di Francesca Diotallevi è diviso in due parti che corrispondono esattamente ai due anni di cui abbiamo parlato in precedenza. Nel 1954 Vivian arriva a New York e va a lavorare presso una famiglia benestante di Southampton: lei bionda, perfetta, labbra tinte di rosso alla Betty Draper di Mad Men; il marito Frank è uno scrittore popolare ma non così apprezzato dalla massa da essere definito un “talento naturale”.La scrittura e lo sforzo di terminare il romanzo, per esaudire così i desideri dei suoi lettori ed essere apprezzato, gli portano via tutto il tempo: «Il guaio con il lavoro di Frank, era che occupava interamente la sua vita. Non esistevano orari, giorno e notte si confondevano, le ferie non erano previste. Uno scrittore non può smettere i propri panni, è uno scrittore in ogni singolo istante della sua vita» (p. 52).
L’affetto che Vivian prova per i bambini che accudisce è reciproco e nei loro peregrinaggi in giro per la città la tata porta sempre con sé la sua amata Rolleiflex, con la quale scatta istanti della vita quotidiana degli sconosciuti. È proprio attraverso le foto scattate – le descrizioni fotografiche sono così dettagliate e accurate che si può risalire alla foto se si ha affianco una monografia della Maier – che iniziano a emergere i ricordi della sua vita prima di diventare la “tata invisibile”: le sue origini europee, l’infanzia in Francia e il soggiorno traumatico e indelebile a casa della zia Marie Florentine, il rapporto difficile con la madre e ma soprattutto con Jeanne: «le due donne che, nel bene e nel male, avevano condizionato la sua intera esistenza» (p. 138).
L’introduzione alla fotografia resta l’aspetto più interessante da chiarire nella vita di Vivian e nel romanzo viene indagato a fondo. Jeanne Bertrand la introduce all’arte sin dalla tenera età, instillandole la necessità di essere curiosi verso il mondo: «Io mi auguro» disse Jeanne prendendole il volto tra le mani «che tu sia sempre tormentata dalla curiosità. Guarda le cose che vedono tutti, ma guardale in modo diverso da come le vedono gli altri. E sii sempre fedele a te stessa» (p. 31). Vivian prenderà talmente alla lettera questo spunto da fare della fotografia la sua ragione di vita, quasi maledicendola per questo: «Quella mattina le era parsa insopportabile l’idea di affrontare un’altra giornata senza levarsi quel dubbio, il dubbio che Jeanne le avesse acceso quel fuoco dentro cosciente del fatto che il suo dolore, filtrato dall’obiettivo, sarebbe stato lo specchio del dolore di Vivian, come un marchio indelebile apposto per troppo amore» (p. 134). Ritrarre gli attimi fugaci degli sconosciuti in una città psichedelica e confusionaria come New York diventa il mezzo per lenire il dolore e immedesimarsi nelle vite altrui solo per l’istante dello scatto, imprimerlo nella pellicola e conservarlo così, senza mai svilupparlo per timore di non sciuparlo: «Era la voglia bruciante di appropriarsi delle esistenze altrui, di un brandello della loro realtà» (p. 113).
È proprio la seconda parte del romanzo, ambientata nel 1955, ad approfondire il mezzo creativo come catarsi per stessa ammissione di Frank: «È così che sopravvivono quelli come noi, Vivian. Trovano un mezzo per dare voce a qualcosa che, altrimenti, li ucciderebbe. L’arte non è altro che una perfetta forma di egoismo. Chi osserva ne trae benessere, talvolta, ma chi la crea lo fa solo e unicamente per sé stesso, per non soccombere ai propri demoni» (p. 140). Francesca Diotallevi
L’arte resta quindi sempre e comunque un mezzo per lenire i mali e godere di ciò che è bellezza al nostro sguardo, come quello di Vivian sul mondo: curioso, tagliente, cristallino. Uno sguardo che «non si accontentava della superficie delle cose, voleva indagarle, sviscerarle, scomporle e ricomporle, fino a possederle» (p. 111). Meno male che oggi possiamo godere dello sguardo di Vivian sul mondo con le sue immense fotografie.
Federica Chimenton
(www.excursus.org, anno XII, n. 94, maggio-luglio 2020)