di GAETANINA SICARI RUFFO – Nata a Bruxelles nel 1950 e morta prematuramente a Locarno nel 2015, da una famiglia di ebrei polacchi emigrati in Belgio, Chantal Akerman viene oggi riscoperta ed onorata per il suo lavoro di cinematografia,intelligente e nuovo, e il senso profondo della vita quotidiana che rappresentò.
L’artista è commemorata da Ilaria Gatti e Alessandro Cappabianca della Scuola di Cinema “Sentieri Selvaggi” e proposta per i suoi film più conosciuti e per tutta la sua carriera, all’insegna di sentimenti molto profondi. Noi condividiamo questo percorso, anche perché ci sembra che oggi sia opportuno isolare alcune personalità femminili esemplari di artiste, di scrittrici, di testimoni in genere sui generis della loro epoca, per dar voce alla lotta di sostegno delle donne che non vogliono esser discriminate e violate nella vita.
È stata la madre la sua prima musa ad ispirarle un forte rapporto di tenerezza, che poi diede vita alla sua creatività: la madre, Natalia Laibel, scampata dal campo di concentramento di Auschwitz, le scriveva quando era lontana, in America, firmando sempre le lettere così «:La mamma che ti pensa e ti vuole bene». L’artista l’associò più tardi al suo lavoro e concepì per lei un progetto filmico: una serie di conversazioni sulle esperienze svariate di vita di cui la madre e lei stessa erano soggetti narranti.
Chantal Akerman iniziò giovanissima: già a 15 anni scoprì la sua vocazione, dopo aver visto il film La donna è donna di Jean-Luc Godard, interpretato da Jean Paul Belmondo e Anna Karina, e scelse sicura: «Anch’io voglio fare film così». A 18 anni esordì con un cortometraggio dal titolo Soute ma ville (Esplode la mia città): nasce in tal modo una stella. Poi l’attende New York, dove si trasferisce con Hotel Monterey (1972) e La Chambre dello stesso anno. A 25 anni il suo capolavoro: 4 ore di faccende domestiche come un thriller: Jeanne Dielman,23 Quai di Commerce 23, 1080 Bruxelles. Tra i ultimi lavori, nel 2000, La captive, ispirato a La prisonnière di Marcel Proust.
Non siamo in un mondo fantastico, ma in settori della vita reale, scandita lentamente, in spazi ristretti con quel senso di costrizione che mima il malessere interiore nel quale non mancano ansie, attese, silenzi prolungati, interrogativi più o meno drammatici. Ma questa è la vita? Perché si è ridotta così?
Il film La folie Almayer (2011), liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Joseph Conrad, lucido e tagliente nelle tematiche con la scelta d’una sorta di prigionia volontaria in cui il soggetto ,che appare analizzato in tutte le sue reazioni, si chiude. Tipico è il Portrait d’une paresseuse in cui Chantal Akerman si filma a letto con camera fissa, mentre racconta non senza una nota d’ironia, la difficoltà di uscire dalle lenzuola. Anche i documentari D’est (1993), Sud (1999), De l’autre coté (2002) e Làbas (2006), testimonianze del blocco sovietico tra Usa e Messico sono rifugi segreti che racchiudono la solitudine come nei film di finzione. La dimensione non è solo fisica, ma tutta interiore e nasconde i mali del nostro secolo: il senso di abbandono e l’incompiutezza.
Si può dire che Chantal Akerman abbia esplorato una grande varietà di temi di vite non banali. I suoi film hanno un’estrema sottigliezza di particolari con lunghe sequenze ed una realizzazione tecnica meticolosa. Nella sua carriera ha realizzato più di 40 capolavori. Oggi il suo prodotto filmografico è un cardine del cinema attuale, alla scoperta del mistero della psicologia più complicata. Ha saputo scavare nell’animo umano il dolore e l’esclusione, riservandosi un posto di primo piano per interrogarsi e rifletterci.
Gaetanina Sicari Ruffo
(www.excursus.org, anno XII, n. 94, maggio-luglio 2020)