Il bambino indaco – Marco Franzoso

franzosoilbambinoindacodi STEFANO BONFIETTI – Se cominciassimo a parlare di Isabel e Carlo dall’inizio, diremmo che lei è una giovane donna svizzera in cerca di una nuova vita, motivo per cui si trasferisce a Treviso, dove apre un’erboristeria. Lui, invece, socio in una piccola azienda di comunicazione a Padova, non cerca nulla di nuovo. Di sé, Carlo racconta: «Non riponevo grandi aspettative nella vita e sentivo che era giusto così, perché nemmeno la vita sembrava riporre grandi aspettative su di me».

Eppure, in fondo, ambisce a qualcosa di più e, quando incontra Isabel, fra i due scatta qualcosa. Quella sera, al termine di una cena piacevole, passando davanti all’erboristeria di Isabel, Carlo nota il quadro de La tuffatrice, appeso sopra il banco. Dipinta dalla stessa Isabel, la tela ritrae una donna nell’atto di librarsi nell’aria: leggera, eterea, quasi confusa con il cielo in cui tende a dissolversi per purificarsi. Una “lettura” che a Carlo appare affascinante, pur non mancando di turbarlo un po’, in quanto contiene la tensione verso l’alto di Isabel: connota cioè la sua repulsione verso il mondo terreno, fatto di volgarità, di cibo avvelenato, di sofferenza e contaminazione.

Quella sera i due si innamorano. Dopo una breve frequentazione, lei si trasferisce da lui, a Padova. Si sposano. Trascorrono mesi felici in una sorta di mondo protetto, finché subentra il lieto evento della gravidanza. «Sarà un bambino indaco!»: è l’annuncio di Lella, la donna che legge l’aura delle persone, a conferma dell’intuizione di Isabel che il loro figlio sia speciale, e vada dunque cresciuto secondo un programma rigoroso, che contempla un’alimentazione “radicale” e pura. «Perché il feto è disciplina» dice Isabel, durante una delle prime discussioni con Carlo su come debba essere cresciuto il figlio. Va detto che, secondo la cultura new age, i “bambini indaco” sono quelli che portano in dono la capacità di far compiere un balzo evolutivo alla specie umana, attraverso doti superiori di empatia, intelligenza e creatività.

Ecco, se dovessimo raccontare la storia dall’inizio, diremmo quanto sopra. Ma in realtà Il bambino indaco (Einaudi, pp. 132, € 11,00 ), romanzo di Marco Franzoso, comincia dalla fine, quando il bimbo ha già quasi un anno. Contattato dai carabinieri, Carlo giunge a casa e scopre che Isabel è stata assassinata. «È successa una tragedia», comunica il maresciallo Marino. Il corpo della donna giace sul pavimento del salotto, coperto da un lenzuolo. All’improvviso, Carlo sente tutto il peso di scelte che se da un lato sono di salvezza, dall’altro sono di condanna. «Il bambino sta bene, è al sicuro», cerca di confortarlo il maresciallo. Ma a lui tutto appare assurdo, distante, il mondo stesso sembra svuotato di senso. Da qui l’esigenza di ricordare, nel tentativo di capire le ragioni di un percorso che, iniziato come un bel sogno, a un tratto è divenuto un incubo.

La storia è quindi raccontata in flashback dallo stesso Carlo, con momenti di ritorno a un presente in cui gli occhi del narratore non si danno pace, scrutando il mistero racchiuso nel cadavere di Isabel accasciato nel salotto, mentre il quadro de La tuffatrice ammicca dalla parete come una sorta di verità dissepolta: la radice profonda e nascosta del male di Isabel.

La memoria di Carlo ripercorre la storia d’amore dal principio, dal primo appuntamento, per arrivare allo scontro fra una donna alla deriva di se stessa e un uomo che, mentre cerca di comprendere e riscuotere sua moglie, deve proteggere un figlio che non cresce perché non viene né nutrito né amato. Perché per Isabel la purezza, l’essere sani, coincide con l’astinenza e il distacco da quella materia vitale che, sia essa cibo o emozione, costituisce la fonte di crescita di un infante.

Per questo, smesso prematuramente di allattare il figlio al seno, lo alimenta solo con un mix di avocado, pomodori e cetrioli; inoltre vuole purificarlo, quindi lo purga, anche affinché possa rimediare ai “sotterfugi” con cui Carlo, aiutato dalla madre di lui, fa mangiare il bambino di nascosto. Memorabile la scena in cui la nonna, con la scusa di portare in giro il nipote, lo nutre sul banco di una chiesa, preoccupandosi poi di ripulire il bambino con cura e di eliminare ogni traccia che possa far insospettire Isabel al loro ritorno.

Ormai, quella fra Isabel e Carlo è una “guerra fredda” e impari. A nulla servono i colloqui di coppia dall’assistente sociale, le visite da pediatri allarmati che decretano lo stato di sofferenza del bambino, se non a esacerbare la convinzione di Isabel di vivere in un mondo di gente insensibile e rozza. Gente da cui deve difendere se stessa e il proprio figlio. Eppure, ormai dimagrita al limite dell’anoressia, prostrata dall’impegno di crescere un figlio contro tutto e tutti, Isabel accetta la proposta di Carlo di separarsi per un breve periodo. Carlo porterà il bambino a casa della nonna, permettendo alla donna di riprendersi e al ragazzino di avere le cure necessarie.

Per un po’ sembra funzionare. Ma anche nei panni dell’assidua visitatrice, Isabel continua, in una sorta di apatia sonnambolica, a ordire il suo piano nutrizionale nei confronti di un bambino che, ritemprato al principio dalla nuova vita, torna presto a essere inerme, deperito, depresso. E, quando Carlo lo scopre, è inevitabile che la sua reazione sia violenta. Una spinta, qualche strattone, una minaccia. Quanto basta perché, in una società che tutela in primis la donna, Isabel torni il giorno seguente, con un avvocato e un documento del tribunale dei minori, per riprendersi suo figlio.

Non sveliamo ciò che segue. Come, e per mano di chi, Isabel muore; come Carlo, senza mai giudicarla, arriva a scoprire l’oscura verità seppellita nel cuore di lei.

Da Il bambino indaco, il regista Saverio Costanzo ha tratto Hungry Hearts (2014), con Alba Rohrwachere Adam Driver. Il film, ambientato a New York, rinuncia al montaggio alternato regalando un’opera lineare, quasi documentaria. Una pellicola molto violenta in senso psicologico, con due grandi interpreti, consigliato come prezioso complemento alla lettura del libro che lo ha ispirato.

Per concludere, Il bambino indaco è un libro che, scritto con stile asciutto, ma con passi di grande profondità introspettiva, riesce a parlare in modo schietto della sofferenza, della determinazione di un uomo che diventa davvero tale affrontando la più terribile delle avventure: combattere contro la donna che ama per salvare il proprio figlio. Da leggere per coloro che, senza temere le profondità abissali dell’animo umano, sono interessati alla realtà in tutte le sue sfaccettature, accrescendo la propria capacità di comprenderla.

Stefano Bonfietti

(www.excursus.org, anno VIII, n. 76, ottobre 2016)