di SIMONA CASADIO – Artemisia (SE, pp. 200, € 22,00) di Anna Banti non è una pretesa di veridicità o il rifacimento romanzato di un diario, né si rifà alla testimonianza diretta di un familiare o d’un affezionato. È la confessione – irata deposizione davanti al giudice – di «una ragazzetta […] che voglia scaricarsi subito di un’ambasciata pressante», ricevuta, «accoccolata in singhiozzi», in un vialetto di Boboli della Firenze del 1944. Una confessione alla quale nella primavera di quell’anno poco mancava ad esaurirsi, ma di cui perse i fogli sotto le macerie lasciate dalle mine tedesche.
Le circostanze belliche costrinsero l’autrice ad accostarsi ancora una volta all’antica necessità di rievocare la figura di Artemisia Gentileschi, sua «compagna di tre secoli fa». «Nata nel 1598, a Roma, di famiglia pisana. Figlia di Orazio, pittore eccellente. Oltraggiata, appena giovinetta, nell’onore e nell’amore. Vittima svillaneggiata di un pubblico processo di stupro». Una seconda stesura che pare simile ad un debito, talvolta doloroso.
Furioso e sprezzante è il tono di un’Artemisia giovanissima, che prende la parola, incapace di frenarsi, mentre si definiscono i fatti che portarono alla violenza a cui Agostino Tassi la costrinse. Fra archivi e documenti storici e biografici, la Banti si pone il fine di comprendere e descrivere «per quante forme, per quanti modi diversi possa esprimersi il dolore di una intattezza violata». Solo in pochi casi il lettore viene riportato ai «polverosi vivi» del presente, per poi lasciarli e di nuovo seguire la«fresca vocina ostinata e querula» della pittrice.
L’autrice non si avvale mai constatazioni psicologiche dirette o slegate dal contesto, ma fini descrizioni di visi, smorfie o atteggiamenti, in modo che, ponendosi come imparziale spettatrice, riesca ad osservare più della semplice scena; come se fosse un accessorio dell’anima di Artemisia, e avesse libero e discreto accesso al susseguirsi dei suoi umori. Dunque nessun giudizio o commento morale, solamente valutazione di causa ed effetto, e un andamento così sciolto da giustificare l’esitazione di fronte alla certezza storica che esclude un reale contatto fra le due donne.
L’ipotesi di una trasposizione del carattere della Banti nella figura di Artemisia è senz’altro rischiosa, ma non priva di punti di forza, considerando i pochi dati disponibili e la necessità perciò di curarsi delle sfumature: ogni particolare assume un’importanza non marginale.
Per tutta la vita Artemisia ha cercato «una immagine con cui combaciare, sotto il cui nome militare», lasciandosi alle spalle una fila lunga quanto il romanzo di donne amate-odiate, e la Banti non si è mossa diversamente. Prima la «signora velata di bianco che da bambina m’incantava […] pretesto alla mia insicurezza quando dovetti firmare» [1], da cui prese cioè il suo nome d’arte, e ultima la pittrice, costruendo con l’invenzione ciò che era assente nelle fonti, e nulla le vietava di farlo secondo la sua personale maniera.
E, ancora, entrambe vissero con accanto una figura maschile dominante: da una parte il padre Orazio e dall’altra il marito Roberto Longhi, critico d’arte. A causa sua la Banti lasciò il mondo della critica artistica:«visto che c’era già Longhi a fare il critico così bene, non mi pareva ci fosse bisogno di un’altra a fare la stessa cosa molto meno bene» [2]. Artemisia frequentava i luoghi di lavoro del padre: cucinava, lavava e teneva a bada i fratelli. Da questi ambienti e dal continuo contatto con artisti assimilò certe tecniche e gesti del mestiere che divenne il suo. Non vi era nulla, quindi, della competizione: era simile all’emulazione, ammirazione ed insieme furioso timore. Ma le capacità di Artemisia erano “colpevoli”, finché il padre, osservando un suo lavoro, non disse «finisci» e la giovane pittrice ricevette la benedizione. Ma il loro rapporto interpersonale rimane complesso: il padre era un uomo difficile ed incapace di esprimere affetto,«silenzioso e come dispettoso: […] così era Orazio quando voleva esser libero e si sentiva legato».
A consolare Artemisia, ferita da quei «distanti incomprensibili fantasmi» che sono gli uomini, ecco imporsi per una circostanza o per un’altra alcune figure femminili. Difficile definire una ragione singola dell’attaccamento al genere: da una parte, è certo, la vicenda sconvolgente dello stupro, e di conseguenza la sfiducia nel maschile che esige una compensazione nel femminile. Poi, dall’altra, il desiderio di vedere altre donne farcela in una società a loro nemica, «ridotte finte e sleali […] per gioco lasciate libere, in un arsenale di armi velenose». A nessuno piace considerarsi per tutta la propria vita un’eccezione, neppure a lei che la Banti definì «una delle prime donne che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e a una parità di spirito fra i due sessi», nel Seicento concezione senz’altro fuori dal comune.
Di natura fragile, Artemisia è tuttavia capace di fare della sua umiliazione un valore: «scottata mille volte al bruciore dell’offesa», ancora non esita a scontrarsi, estranea al ridicolo e al degradato.«A volte miserella, quasi schiacciata dall’opera; a volte maestosa, arditissima» e «sempre sbandata tra una famigliarità eccessiva e una pomposa distanza da dea», non le dispiace essere definita da alcuni una «donna che non ha viscere […] un’orsa, una fiera» perché in tal modo si libera in parte del suo essere donna, del «vanto delle femminili virtù», e ciò che le rimane è la sola cosa di cui le importa.
«Seguir la pittura solamente»: questa la rinuncia che concede di parlare «il linguaggio di suo padre, dei puri, degli eletti». Solo in questa concezione di se stessa Artemisia riesce a compensare l’offesa dello stupro: la ferita si cura una volta terminato il quadro di Giuditta e Oloferne. Un processo catartico contornato da figure, spettatrici del mestiere, a volte comiche e leggere, a volte patetiche e feroci.
Ecco che Artemisia non è più solo letteratura, si slaccia dai suoi margini, perché è letteratura formatasi sul deposito dell’arte, che è storia, cioè sui quadri che la reale mano della pittrice ha dipinto in circostanze reali della sua vita. La Banti ha seguito la composizione delle opere di Artemisia non nel loro contesto artistico, ma assimilando le agitazioni del suo animo: le figure, «le pennellate come fendenti di spada» e, alle volte, gli autoritratti celati («un ghigno che ormai antichi motivi ispiravano»), rivelandosi una non così mediocre critica d’arte.
Simona Casadio
NOTE BIBLIOGRAFICHE
[1] – Giuseppe Leonelli, Introduzione, in Anna Banti, Artemisia, Bompiani, Milano, 1996, p. XVIII.
[2] – Sandra Petrignani, Le signore della scrittura, La Tartaruga, Milano, 1984, p. 102.
(www.excursus.org, anno IX, n. 80, febbraio 2017)