di CHIARA PINI – Le notizie di violenza che ascoltiamo nei telegiornali sono diventate il nostro pane quotidiano, al punto che poco riesce davvero a sorprenderci e a toccarci. Siamo ormai estremamente assuefatti dalla lotta che da secoli gli uomini conducono nei confronti dei propri simili. Già dai primi approcci ai libri di Storia notiamo come essa sia costituita per lo più dal susseguirsi di guerre condotte da popoli per la supremazia degli uni sugli altri in una continua e, senza fine, spirale di brutalità.
La storia della Storia è piena di episodi, più o meno noti, di eventi di carneficine causate per avidità e ignoranza e nascoste da alte motivazioni di civilizzazione. Il Novecento, secolo da pochi anni archiviato, è infatti tristemente noto per l’altissima concentrazione di avvenimenti senza eguali, a partire dal Primo e dal Secondo Conflitto Mondiale, passando per la deportazione e lo sterminio degli ebrei e le numerose guerre dell’ultimo ventennio, dal Vietnam ai Balcani.
Tirando le somme, però, noi italiani possiamo ritenerci, nei confronti di altre popolazioni, con la fedina penale piuttosto pulita. In fondo non ci siamo mai messi in evidenza per la nostra crudeltà, abbiamo sempre agito tutto sommato in maniera positiva. Certo, in qualche occasione ci siamo lasciati traviare da idee sbagliate, questo sì, e talvolta abbiamo copiato modelli di comportamento, non nostri, che non ci han fatto onore, ma per natura siamo sempre stati una popolazione civile e pacifista con un’indole tutto sommato bonaria e rispettosa. Ma forse, a ben guardare, le cose non stanno proprio così.
A smontare la maschera di popolo civile e senza macchia è Michele Strazza, studioso minuzioso dell’Età Contemporanea che, con un’attenta ricerca negli archivi di documenti, testimonianze e campagne pubblicitarie dell’epoca, ha messo in luce i crimini commessi dall’Italia in Libia e in Etiopia con il suo saggio intitolato Le colpe nascoste. I crimini di guerra italiani in Africa (Edizioni Saecula, pp. 146, € 16,00).
Un capitolo oscuro del nostro recente passato che tutti noi dovremmo conoscere e che è stato al contrario insabbiato per anni dalle autorità a causa dell’efferatezza dei comportamenti tenuti dai nostri connazionali nei confronti di popolazioni innocenti e impotenti.
Il saggio è ben strutturato e di facile comprensione anche per i non addetti ai lavori. Le prime pagine raccontano l’occupazione della Libia e la descrizione della resistenza che i gruppi locali provarono a condurre per salvare il proprio Paese dagli spietati invasori. Segue poi una descrizione storicamente documentata dello scontro con gli etiopi. Inutile dire che in entrambi i casi non si trattò di un combattimento ad armi pari.
Oltre all’evidente superiorità militare l’opera di “civilizzazione” italiana fu condotta tramite rastrellamenti a catena, uccisioni indiscriminate di uomini (compresi anziani, bambini e donne) ed animali e distruzioni dei depositi di grano. Le popolazioni civili furono barbaramente private del sostentamento alimentare e costrette in molti casi alla fuga.
Non paghi di ciò e per poter operare la conquista nel minor tempo possibile, su sollecitazione del duce, i nostri generali, tra cui Graziani e, l’eroe della liberazione, Badoglio, decisero di utilizzare le bombe all’iprite: gas altamente nocivo il cui utilizzo era bandito anche dalla Società delle Nazioni – il quale, provocando piaghe devastanti, conduceva con terribile sofferenza a morte certa. È dimostrato che siano state utilizzate non meno di 500 tonnellate di aggressivi chimici.
Mentre la popolazione italiana si beveva le menzogne della censura del regime sul Times inglese appariva la seguente dicitura che lascia decisamente l’amaro in bocca: «per la prima volta nella storia del mondo, un popolo che si ritiene civilizzato, usa i gas tossici contro un popolo che si ritiene barbaro. A Badoglio, Maresciallo d’Italia, deve essere attribuita la gloria di questa ardua vittoria».
Degno di menzione e di “lode” è anche il fatto che la stessa croce rossa internazionale fu ripetutamente bersagliata dalla nostra aviazione mentre era impegnata nel tentativo di soccorrere la popolazione civile.
Un capitolo è interamente dedicato a un altro tema: quello dei diciotto campi di concentramento che gli italiani crearono in Africa. Oltre ai quali dobbiamo ricordare anche quattro campi definiti “di rieducazione”. Qui veniva fatto il lavaggio del cervello ai piccoli orfani i quali, addestrati come macchine da guerra, sarebbero stati usati come pedine in vista del successivo conflitto. Inoltre in altri tre campi, detti “di punizione”, erano rinchiusi i presunti oppositori. Le testimonianze dei superstiti di questi campi non hanno nulla da invidiare a quelle più famose dei detenuti in Europa: lavori inutili e usuranti sotto il sole cocente senza cibo né acqua, gente morta a causa degli stenti e delle malattie dilaganti per l’impossibilità di curare la propria igiene, torture e uccisioni plateali a cui tutti dovevano assistere.
L’autore ci invita a capire che non dovremmo andare molto fieri del nostro trascorso in Africa sapendo che il solo significativo ricordo che noi italiani abbiamo lasciato sono i morti per impiccagione, la forca e le teste mozzate esposte nelle piazze dei villaggi. Mentre procediamo nella lettura molti sono i quesiti che sorgono spontanei: dov’erano le altre Nazioni mentre l’Italia portava avanti questo abominio denunciato da tutti i giornalisti e medici che si trovavano sul campo? Perché nonostante gli accorati appelli del presidente etiope Selassiè la società delle Nazioni revocò le sanzioni all’Italia? Chi ha pagato per questi crimini inenarrabili?
Le risposte sono contenute in questo saggio che vi lasceranno senza parole per la disumanità di cui siamo stati capaci. Non c’è spazio per le scuse. Non c’è spazio per l’etica. Qui troverete solo la realtà che purtroppo supera di gran lunga qualsiasi immaginazione, ma per non macchiarci due volte dello stesso crimine questi fatti devono essere conosciuti in modo da concedere almeno un po’ di giustizia a chi non ne ha avuta. Come scriveva Cesare Pavese infatti: «ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione».
Chiara Pini
(www.excursus.org, anno VI, n. 56, marzo 2014)