di GIORGIA LEGATO – «Gli uomini passano, ma le idee restano e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini» (p. 26). Sono proprio le idee di due grandi uomini le protagoniste del testo teatrale Valeva la pena? Dialogo probabile tra Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, scritto da Luciano Bertoli (A. Car Edizioni, pp. 76, € 8,00). L’opera mette in scena i due integerrimi magistrati siciliani che, in un continuo alternarsi in scena, parlano tra di loro, dando voce a quei principi morali e di giustizia, e alle conseguenti azioni, che hanno decretato, purtroppo, la morte.
La Prefazione è redatta da Rita Borsellino, sorella di Paolo, che con poche e semplici parole è in grado di toccare alti livelli di emotività, facendo provare al lettore contemporaneamente rabbia e tristezza. La Borsellino si interroga su quanto ne sia effettivamente valsa la pena, rispondendosi «dolorosamente» di sì. Ma Rita apre anche un altro interrogativo, a nostro giudizio ancora più importante e concreto: si domanda se tutto questo fosse davvero necessario affinché noi tutti diventassimo “normali”. E come darle torto… l’impressione è che serva sempre una tragedia per muovere le acque e evidenziare errori e falle da risolvere. Perché non cercarle prima allora? Prima che due persone della levatura di Falcone e Borsellino perdessero la vita per il loro lavoro.
L’opera inizia con un escamotage teatrale: la scena, infatti, si apre con Borsellino che riguardando una fotografia di lui e Falcone la commenta, ripercorrendo gli avvenimenti dell’Asinara durante il maxi processo a Cosa Nostra. Ne consegue un flusso di pensieri grazie al quale veniamo a conoscenza di quali siano le idee di Paolo circa la Mafia e la scuola: «Bisogna investire nella cultura, nell’istruzione: la mafia teme più la scuola che la giustizia. Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo. […] È importante parlare di mafia, soprattutto nelle scuole, per combattere contro la mentalità mafiosa, che è poi qualunque ideologia disposta a svendere la dignità dell’uomo per soldi» (pp. 14-15).
I due magistrati, interpretati dal medesimo attore, si alternano sulla scena indossando vestiti ed oggetti che permettono di distinguerli e identificarli e esponendo le proprie idee ci permettono anche, attraverso alcune frasi sparse nel volumetto, di avere una finestra diretta sul loro “essere uomini”. Prima di essere due giudici, capaci ed affermati, erano due uomini come noi, con i loro affetti e soprattutto le loro rinunce. In una frase in particolare, pronunciata da Falcone, ritroviamo tutto il dolore che una scelta del genere gli avrà sicuramente comportato: «Paolo! Sai perché non ho voluto avere figli? Per non generare orfani. Magistrati uccisi non si contano più». (p. 19). Queste “intromissioni” nella loro vita privata permettono agli spettatori di capire ancora di più quanto entrambi credessero nel loro lavoro, tanto da sacrificare se stessi.
Il testo non è semplicemente una biografia di Falcone e Borsellino o un saggio sulla mafia. Ma è piuttosto un punto di vista privilegiato sui loro pensieri e sulle loro sensazioni. Falcone, ad un certo punto, dice ai lettori/spettatori che la mafia gli ha addirittura dato una lezione di moralità, in quanto lui ha imparato grazie ad essa ad accorciare la distanza tra “dire” e “fare”, e a percepire il proprio senso di Stato come ancora più autentico.
La scrittura è chiara e lineare, le battute si susseguono con un ritmo incalzante che rendono la lettura scorrevole e soprattutto piacevole. Le parole si avvicendano e accompagnano il lettore dentro all’opera, trascinandolo lentamente, ma inesorabilmente. Lo portano a farsi domande e a cercare di darsi risposte. Emblematica in questo senso è la storia fiabesca che viene raccontata verso il finale dell’opera, tratta da L’uomo che piantava gli alberi di Jean Giono, che insegna come attraverso passione ed impegno si possano raggiungere alti obiettivi. D’altronde «è la volontà che cambia le cose. E la volontà trae energia e stimoli dal positivo e dalla Speranza. Il sangue dei giusti è seme» (p. 46).
A conclusione, la Postfazione a cura di Giuseppe Giuffrida aggiunge dettagli storici sui due protagonisti, chiudendo con un encomio all’autore, ringraziandolo per il suo sforzo e per il suo lavoro. Non resta che sperare che opere come questa, siano esse teatrali, cinematografiche o letterarie, riescano a smussare gli animi di coloro con cui entrano in contatto. Solo parlando alla coscienza delle persone e facendole riflettere si potranno vedere risultati contro la grande ingiustizia rappresentata dalla mafia. Come afferma Borsellino nel testo, solo nel momento in cui la criminalità organizzata si vedrà negati i consensi inizierà a spegnersi e a perdere progressivamente potere. Perché: «la cosa peggiore non è la cattiveria dei malvagi, ma il silenzio dei giusti» (p. 43).
È il silenzio che permette che angherie e ingiustizie si protraggano. Finché ci sarà chi china la testa tutto questo troverà terreno fertile sul quale svilupparsi, perché come ci disse Giovanni Falcone: «Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e che cammina a testa alta muore una volta sola». E non c’è giustizia né dignità nel morire due volte.
Giorgia Legato
(www.excursus.org, anno VII, n. 70, maggio 2015)