di SIMONE GIUSTO – Se vi capiterà di pensare a quali siano realisticamente le cose più difficili da fare in un breve lasso di tempo, ad alcuni verranno di sicuro in mente imprese come completare il cubo di Rubik in 7 secondi (per l’esattezza il record mondiale è stabilito in 5,55 secondi) o diventare Presidente degli Stati Uniti. Altri si chiederanno se sia possibile comprendere almeno una fetta del mondo in cui viviamo in un solo giorno.
Ebbene, se siete tra questi, potete accorciare la vostra “lista nera”:Critica della Vittima (nottetempo, pp. 128, € 12,00), godibile saggio di Daniele Giglioli, docente di Letterature Comparate presso l’Università di Bergamo, non vi aiuterà forse ad avere il vostro ufficio nello studio ovale, ma vi offrirà senz’altro, in poche pagine, un’interpretazione interessante e innovativa della realtà che abitiamo.
L’operazione di Giglioli si configura come un vero e proprio esperimento con l’Etica, un percorso di analisi e di decostruzione di uno dei grandi protagonisti di oggi, la vittima. «La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. […] Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. Non agisce, non patisce» (p. 9).
Sin dalle prime pagine dell’Introduzione si chiariscono dunque l’obiettivo polemico, il quale non coincide qui con le vittime reali quanto con «la trasformazione dell’immaginario della vittima in instrumentum regni» (p. 12) e le cause di tale atteggiamento critico. Una critica che non sia solo «biasimo o giudizio» (p. 13), ma anche «e anzi in primo luogo […] discernimento, vaglio, setaccio, delimitazione di ciò che si può e non si può dire; fondazione di un campo, apertura di uno spazio, individuazione di un terreno su cui ragionare insieme. […] Conoscenza del limite e ricerca di un suo superamento» (Ibidem).
Così, mentre la prima parte del saggio indugia su una ricostruzione veritiera dellasintomatologia del fenomeno, e la seconda si apre ad una prospettiva storica sull’origine e sulla reale funzione della ideologia della vittima, la terza ed ultima ricapitola i punti salienti del discorso, propone domande ed offre risposte che, come del resto fin dall’inizio ci si aspettava, vanno in direzioni differenti.
Ciò che sorprende, tuttavia, non è soltanto la capacità dell’autore di trovare affinità tra prodotti culturali diversi presi dagli ambiti più disparati (la letteratura, la filosofia, il cinema, la televisione, la politica), con l’obiettivo di saldare nella mente del lettore quella che è definita la «macchina mitologica» (p. 10) della vittima, bensì il fatto che leggendo ci si ritrovi spesso a dire a se stessi, quasi rimproverandosi: «perché non ci ho pensato prima?».
Questa sorpresa è causata dall’abilità di Giglioli nell’utilizzare come colonne del suotempio in costruzione alcuni dei temi e dei comportamenti entrati a far parte ormai di una mentalità ampiamente condivisa: ad esempio l’umanitarismo diffuso, così presente nella pubblicità, nella musica e nella televisione («il credo umanitario è piuttosto una tecnica, un insieme di dispositivi che disciplinano il trattamento delle parole, delle immagini sapientemente articolate […], delle reazioni emotive ingiunte agli spettatori: estetizzazioni kitsch, sensazionalismo riduttivo, naturalizzazione vittimaria di intere popolazioni», p. 18), o la moltiplicazione dei giorni dedicati alla commemorazione di eventi storici. Quest’ultimo dato sottintende, a ben vedere, una trasmissione distorta della storia, al cui centro ritroviamo la vittima in quanto testimone, e cioè chi reca su di sé il peso dei processi storici, l’eroe passivo, l’eroe che ha subìto.
Si passa dunque al paradosso di una società che fonda se stessa su una morale vittimaria e che elegge di conseguenza il mostro ad unico principio attivo. In questa stessa singolarità «si inscrive la tendenza delle leadership a presentarsi come vittime. […] Ai suoi gregari il leader che si atteggia a vittima propone un implicito e a volte esplicito patto affettivo, un’identificazione attraverso la leva potente del risentimento. È la chiave di qualunque populismo» (pp. 27-28). Interessante ed attuale questa visione del potere che pone se stesso al di là di ogni possibile critica – da qui le condanne spesso pronunciate dalla politica nei confronti del giornalismo e della satira.
Persino il campo irriverente della letteratura, sottolinea Giglioli, non è esente dal partecipare, in alcuni casi, alla fortificazione del mito della vittima: anche qui i riferimenti si sprecano, partendo da Antonio Moresco che, secondo l’autore, ha giocato parte della sua fortuna critica sul suo relegarsi al ruolo di escluso, arrivando fino a (ebbene sì) Pier Paolo Pasolini, nella cui opera è possibile rintracciare una «ingente quantità di motivi vittimari e di identificazioni cristologiche» (p. 64).
Ma da dove deriva, e quando ha avuto inizio questa funzione, per certi aspetti ricattatoria, dell’ideologia della vittima? Ancora una volta i tentativi di risposta si alternano ad esempi storici concreti quanto sorprendenti. Si pensi alla martirizzazione di idoli come le rockstar morte a causa della droga (Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin, AmyWinehouse) o alla posizione assunta dai reduci americani dopo il Vietnam, «che si può così riassumere: noi che abbiamo combattuto dalla parte sbagliata, noi, e non i vietnamiti, siamo le vere vittime di guerra; noi costretti a uccidere donne e bambini, a bruciare villaggi, a commettere cose orribili» (p. 60). Da una parte, dunque, il culto dei caduti, dall’altra quello dell’innocenza come ritrosia, rifiuto nei confronti della storia e della partecipazione attiva ad essa.
Infine, attraverso lo stesso filtro, Giglioli arriva a spiegare alcuni fenomeni contemporanei di grande successo: quelli dell’identità e dell’innocenza, dello storytelling e delle teorie complottistiche. La posizione vittimaria opererebbe da garante di tutti e quattro; il primo a causa della sua propria intima sostanza: alla vittima è infatti mancato qualcosa, ha già offerto il proprio sacrificio, e non necessita più di alcuna trasformazione. L’identità, paradossalmente protagonista della cultura dei social e del selfie, rappresenta qualcosa di solidificato e attestato, il contrario della rivoluzione, alla base della quale sta invece la mancanza.
In secondo luogo «la vittima garantisce innocenza. […] Non si tratta tanto della legittima aspirazione a non nuocere, ma del desiderio impossibile di essere dichiarati incapaci a farlo» (p. 95). Identità ed innocenza garantiscono a loro volta una storia, e producono la diffusione a macchia d’olio della cultura dello storytelling e dei suoi derivati, con cui spesso ci si inganna della unicità e della straordinarietà della propria esperienza di vita. È attraverso questa presa di coscienza che si arriva ad una spiegazione della proliferazione di autobiografie di ogni tipo e da ogni ambito – dalla cucina, al calcio, al tennis e via dicendo.
Cosa produce, in conclusione, il mito della vittima, se non una forma distorta di potere sul mondo, una potenza che Giglioli definisce agency? «Respingendola da sé, pur in cambio di compensazioni […] la mitologia vittimaria ne addita costantemente la presenza: altri, non io, ma pur sempre qualcuno è responsabile» (p. 108). Qualcosa del genere sta alla base di un’altra mitologia contemporanea che deresponsabilizza il soggetto, quella cioè del complotto, della congiura, della cospirazione.
Come abbiamo visto, dunque, la carne sul fuoco è tanta; cuocerla a puntino non sarà così semplice. Il merito di Daniele Giglioli, come di ogni critica che si rispetti, è proprio questo, presentare varie sfaccettature di un fenomeno creando una utile suggestione per l’altro, in questo caso il lettore: è a lui che spetterà poi il compito di convertire la suggestione in pensiero, creatività, azione, abbandonando, in un certo senso, la posizione passiva ed assumendosi la responsabilità attiva di modificare (perché no?) l’inerzia del mondo.
Simone Giusto
(www.excursus.org, anno VII, n. 71, luglio-agosto 2015)