di CLAUDIA SERMARINI – Il silenzio del mare (traduzione di Natalia Ginzburg, Einaudi, pp. 56, € 9,50), di Jean Marcel Bruller, è la storia di un mondo logorato dalla guerra, di una libertà negata che accresce pregiudizi già radicati da tempo, di una vana speranza di potersi sentire ancora vivi e umani. Si tratta della prima opera dello scrittore, nata dall’esperienza devastante del Secondo Conflitto Mondiale, pubblicata, a causa della censura fascista, con lo pseudonimo di Vercors, nome che ricorda le Prealpi Francesi in cui rifugiò durante l’invasione tedesca e con il quale ha firmato la maggior parte dei suoi lavori.
È il 1942, la Francia viene assediata dai tedeschi: un anziano signore, il narratore del racconto, e sua nipote sono costretti ad ospitare nella propria casa un ufficiale tedesco, Werner Von Ebrennac. Una convivenza di circa sei mesi, periodo in cui l’ospite, ogni sera, prende l’abitudine di andare nel salotto accanto al caminetto per riscaldarsi e stare in compagnia. Se ne sta lì, quasi a suo agio, a raccontare la sua visione della guerra, il suo amore per la Francia e soprattutto per la letteratura francese, i suoi ideali e le sue aspirazioni.
«Non posso ricordare, oggi, tutto quel che fu detto nel corso di più di cento serate invernali. Ma il tema non variava. Era la lunga rapsodia della sua scoperta della Francia». Ma l’anziano e la nipote lo guardano appena, non dicono nulla, non rispondono alle domande. Siamo di fronte ad un silenzio assordante, un silenzio greve che nasconde qualcosa di più grande, un silenzio che sa di malinconia, di odio misto a tristezza, di pregiudizio, un silenzio che, però, non scoraggia l’ufficiale.
Von Ebrennac, infatti, non si fa frenare dalla situazione, continua imperterrito tutte le sere, terminando il soliloquio sempre con la stessa frase di commiato: «vi auguro la buonanotte!». Lui sa che non riuscirà nel suo intento, la conversazione non avrà mai inizio, l’anziano e, soprattutto, la giovane ragazza rimangono immobili sulle proprie poltrone, immersi in un mondo di cui resta solamente un lontano ricordo. Ma, nonostante ciò, non vuole rinunciare al tentativo di dimostrare che le cose, a volte, non sono come sembrano.
Tutto il racconto è un’attesa continua, nella speranza che il vecchio dica una sola insignificante parola, che la giovane degni di un piccolo sguardo l’ufficiale. Sì, perché non è possibile essere completamente d’accordo con Von Ebrennac: i suoi ideali sono vicini a quelli nazisti e in fondo, alla fine, sceglie di sottomettersi alla guerra e al pensiero influenzato dall’ascesa al potere di Hitler. Tuttavia, non si può non essere dalla sua parte quelle notti in cui, scendendo in salotto, si libera dall’opprimente peso che la società e la guerra gli hanno imposto, e dà libero sfogo a quel sé che non è poi così lontano e differente dal nostro.
Il lettore pensa attraverso gli occhi dell’anziano signore, in quanto narratore del racconto, e, come lui, matura una maggiore consapevolezza man mano che le ore di quegli incontri serali trascorrono inesorabili. Inizialmente contrariato, considera l’atteggiamento dell’ufficiale aggressivo e invadente: si pensa semplicemente che abbia un secondo fine o che voglia solo rendere quel soggiorno il più tranquillo possibile. Poi qualcosa cambia, si comprende che in quel monologo si nasconde una persona diversa, una persona sensibile con interessi puri e innocenti. Anche il narratore se ne rende conto e il suo atteggiamento si addolcisce, ma non va oltre o, almeno, non ci riesce completamente.
È un dramma terribile e lacerante quello che Vercors ha voluto rappresentare. In una cinquantina di pagine, descrive perfettamente i sentimenti contrastanti di persone che oramai sono solo ombre malinconiche, che cercano a tutti i costi di dare un senso alla propria esistenza, ma non sanno come affrontare la tempesta di sentimenti che li travolge ogni giorno sempre di più. Non trovando una soluzione immediata al loro senso di oppressione e di vuoto e resi ciechi dalle circostanze della guerra, decidono di piegarsi e aspettare che le cose si risolvano da sole.
Von Ebrennac si sottomette al regime nazista, nonostante sia contrario al metodo utilizzato da Hitler: «e davvero io so bene che i miei amici e il nostro Führer hanno le idee più grandi e nobili. Ma so anche che strapperebbero le zampe ai moscerini». L’anziano narratore, invece, sceglie di rimanere in disparte, attendendo il momento in cui l’ospite se ne va, per riprendere ad occuparsi del soffocante scorrere del tempo.
Lo stile è semplice ed essenziale, ricco di periodi brevi, di frasi che tendono a sottolineare significati nascosti e desideri ineccepibili, di pause mai inserite a caso. Le parole pronunciate dall’ufficiale sono piene di metafore: vuole risultare “trasparente” ai suoi interlocutori, se così possono essere chiamati, ma allo stesso momento non può e non deve rivelare tutto ciò che lo spinge a parlare.
L’autore guida il lettore in questo turbine di desideri inespressi, di silenzi devastanti, di sguardi nascosti, di parole non dette. Il silenzio dei due francesi, costante fondamentale di tutto il racconto, è un silenzio dovuto alla guerra, è un’oppressione continua che Vercors spiega bene nelle pagine finali: «[…] sentivo sì pullulare la vita sottomarina dei sentimenti nascosti, dei desideri e dei pensieri che si negano e si combattono. Ma al disotto di questo, ah! null’altro che un’atroce oppressione».
È il silenzio di chi ormai non ha più niente da dire, di chi ha dimenticato cosa significa il presente e vive quotidianamente di ricordi sfumati e incerti, di chi si nasconde in una bolla come nei più profondi meandri del mare.
I due francesi sono ombre di una vita che non tornerà più e il loro silenzio non è altro che un’ulteriore sottomissione alle circostanze che li perseguitano.
Vercors riesce molto bene a rendere questo peso che i personaggi portano con sé, un fardello e un sentimento di solitudine che rimangono ancorati al cuore dei lettori anche dopo aver terminato l’ultima pagina.
Claudia Sermarini
(www.excursus.org, anno VIII, n. 75, settembre 2016)