«A lettere piccole e goffe scrisse: 4 aprile 1984.
[…] Ciò che ora stava per fare era iniziare un diario, un atto non illegale di per sé (nulla era illegale, dal momento che non esistevano più leggi), ma si poteva ragionevolmente presumere che, se lo avessero scoperto, l’avrebbero punito con la morte o, nella migliore delle ipotesi, con venticinque anni di lavori forzati».
di ALBERTO BONOMI – Inizia così 1984 di George Orwell (traduzione di Stefano Manferlotti, Mondadori, pp. 336, € 14,00), uno dei romanzi più conosciuti e forse più controversi del secolo scorso. Pubblicato per la prima volta nel 1948, questo romanzo detiene tuttora un’insuperata carica politica, sociale, umana e nondimeno letteraria. Per chi non lo conoscesse, il libro narra di un prossimo futuro in cui il mondo è diviso in tre superpotenze, in perenne lotta fra loro per contendersi i territori di confine. La guerra, in realtà, non ha altro scopo se non quello di mantenere al potere la classe dirigente conservando al contempo lo status quo delle rispettive società. L’aspetto più inquietante lo rivela appunto quest’ultima: la società è divisa tra prolet e membri del partito, che possono essere a loro volta esterni o interni. Tutti, a parte i prolet – che sono considerati “animali” –, vivono sotto l’occhio di Big Brother, il Grande Fratello, entità quasi mitica – nessuno l’ha mai visto in faccia, nonostante la sua faccia sia ovunque – che ci osserva perennemente attraverso i teleschermi installati in ogni casa privata o edificio pubblico.
È in questa situazione che troviamo Winston Smith, il protagonista del romanzo, il quale compie l’atto apparentemente innocuo, ma in realtà profondamente ribelle, di iniziare a scrivere un diario. Cominciare a scrivere significa cominciare a pensare, e pensare significa, nella società di 1984, compiere un reato punibile con la morte, poiché il libero pensiero presuppone lo svincolarsi dall’ortodossia del Partito – Orwell lo chiama toughtcrime, “psicoreato” – nella neo lingua inventata dagli intellettuali del Partito.
Da quel momento in poi, fin dal primissimo capitolo, la sorte di Winston è già segnata: la thoughtpolice, la “psicopolizia”, prima o poi arriverà, lo catturerà e lo ucciderà con un colpo di pistola alla nuca; lo eliminerà dalla faccia della terra (non prima di redimerlo facendogli arrivare ad amare Big Brother). All’inizio negherà la sua esistenza, cancellandolo dagli archivi, poi lo dimenticherà come se non fosse mai esistito, espellendolo dal corso della storia – proprio lui che, lavorando al Ministero della Verità, aveva il compito di cancellare ogni prova documentaria relativa a persone divenute indesiderabili per il Partito. La bellezza terrificante di 1984 sta esattamente qui: nella lucida disperazione in cui getta il protagonista, e con lui il lettore. È un romanzo senza speranza, senza redenzione alcuna. Nemmeno l’amore, rappresentato dal breve idillio con Julia, sarà in grado di sopravvivere al potere del Grande Fratello, che lo farà sprofondare prima nell’odio e alla fine nell’indifferenza. Quando la politica diventa totale, sembra dirci Orwell, invadendo persino gli spazi più nascosti della mente umana, non lascia dietro di sé alcuna traccia di umanità.
«Noi, Winston, controlliamo la vita a tutti i suoi livelli. Tu immagini che esista qualcosa come ‘la natura umana’ che si sentirebbe oltraggiata da quello che noi facciamo e che si ribellerà contro di noi. Ma siamo noi a crearla, questa natura umana […] Se è vero che sei un uomo, Winston, tu sei l’ultimo uomo. La tua specie si è estinta e noi ne siamo gli eredi. Non capisci che sei solo? Tu sei fuori dalla storia, tu non esisti».
1984 viene spesso definito un libro profetico, una distopia lanciata come un monito verso il futuro. Questo, in parte, è vero; eppure si dice che Orwell volesse intitolare il romanzo 1948, come l’anno di pubblicazione, e che, avendo avuto il rifiuto degli editori – in quanto il libro aveva dei rimandi espliciti al regime stalinista, al tempo ancora alleato dell’Inghilterra – cambiò il titolo semplicemente invertendo le ultime due cifre. Ciò ci invita a riconsiderare questo romanzo come una sorta di lato oscuro sempre attuale della società in cui viviamo, senza relegarlo a un possibile futuro lontano e irraggiungibile; è in questo modo che 1984 è un libro politico, e non tanto o non solo profetico: nella misura in cui toglie la speranza e la restituisce sotto forma metanarrativa. Orwell ci descrive un mondo in cui non vi è spazio per il libero pensiero? Sì, certo, ma lo fa dal punto di vista di un personaggio che si ribella al sistema – analogicamente: vi è speranza in un mondo come il nostro dove regnano altri Big Brother, dove vi sono altri “psicoreati”, magari più subdoli, dove torture, bombe ed esecuzioni sono all’ordine del giorno ed esistono slogan ben peggiori di “La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”? Sì, perché tale mondo ha partorito George Orwell, e con lui 1984. È in questo senso che la letteratura si fa politica, perché ci descrive il mondo così com’è, se solo avessimo il coraggio di non distogliere lo sguardo.
Alberto Bonomi
(www.excursus.org, anno X, n. 90, novembre-dicembre 2018)