di FRANCESCA VAROTTO – Siamo in un paese senza nome, in un anno senza data e con protagonisti identificabili solo grazie al loro lavoro o al ruolo istituzionale, l’unica cosa che si sa è che la notte del 31 dicembre la morte smette di fare il suo dovere: le persone, semplicemente, cessano di morire. Saramago
Dopo una prima reazione di giubilo, la società si rende conto dei problemi che la mancanza della morte può causare: insorgono gli ospedali, le case di riposo, le agenzie di pompe funebri e quelle delle assicurazioni, lo Stato cerca di riorganizzare la vita economica di quei settori che vivevano grazie all’azione della morte e, inoltre, deve rapportarsi anche con la Chiesa, in quanto «senza morte […] non c’è chiesa». L’assenza dell’azione della falce si verifica solo in questo Stato e ciò permette l’introduzione di un protagonista presente in ogni nazione (ed ecco un altro motivo per cui questo non ha un nome): la maphia, con il ph perché deve distinguersi da quella classica, che vuole arricchirsi sfruttando la situazione e si accorda con il governo. Saramago
La penna di Josè Saramago, in Le intermittenze della morte (traduzione di Rita Desti, Feltrinelli, pp. 218, € 9,50), ci trasporta in una società dove viene realizzato il desiderio dell’umanità, l’immortalità. Ma il lucido raziocinio dell’autore porta il lettore a ponderare bene su tale desiderio; mette in luce, non senza la meravigliosa ironia che lo contraddistingue, entrambi i lati della medaglia.
Lo stile del Nobel portoghese si riconosce subito, i protagonisti non hanno nome proprio, nemmeno la morte ha la lettera maiuscola all’inizio del proprio appellativo, come lei stessa sottolinea, perché lei è solo una delle morti che vivono in questo mondo. Occorre prestare attenzione alla lettura di questo libro, l’uso della punteggiatura poco convenzionale, l’integrazione dei dialoghi nel discorso narrativo e i frequenti cambi di prospettiva rendono la vita poco facile ad un lettore disattento, ma risiede proprio qui il fascino delle opere di Saramago: dando vita a situazioni paradossali, surreali e dai tratti in qualche punto quasi apocalittici, l’autore mette in evidenza le contraddizioni di questo mondo e invita il lettore a ponderare su ogni singola prospettiva, senza tralasciare nemmeno i dettagli che sembrano più insignificanti.
Di tale stile si hanno molte prove durante la lettura del libro, vengono sviscerate tutte le reazioni positive e negative, senza escludere, anzi mettendo in primo piano, i sentimenti della morte. Sì esatto, i sentimenti della morte: abituati a rappresentarla come uno scheletro con un mantello nero e falce, caratteristiche che non vengono abbandonate in questa storia, l’autore ci fa compiere un passo in avanti, umanizza la morte.
Delusa dal risultato della sospensione del suo lavoro, la morte decide di riprendere metaforicamente in mano la temuta falce e ripristinare la normalità. Ci sarà però un cambiamento nel suo operato; riconoscendo come brutale l’atto di togliere la vita a tradimento, da quel momento annuncia che le persone che dovranno morire riceveranno un preavviso di una settimana, per dar loro il tempo di sistemare le faccende in sospeso e salutare i propri cari. Anche questa concessione da parte della morte viene accolta con reazioni contrastanti, ad indicare come l’umanità sia destinata e soprattutto caratterizzata da un continuo stato di insoddisfazione.
La seconda parte del romanzo prende inizio con un problema che la morte riscontra nella consegna dei preavvisi: una delle sue lettere viola non viene recapitata a destinazione e, per quanto ci provi, questa torna sempre indietro al mittente. Volendo capire l’impedimento, la morte decide di assumere sembianze umane e infiltrarsi nella vita di un uomo che si rifiuta di morire, quasi a completare questo processo di umanizzazione che l’autore aveva iniziato molte pagine prima.
Adesso i toni sono più romantici – quasi troppo per essere Saramago – e nel finale, sebbene un filino smielato, l’autore riesce a mettere in luce uno dei suoi scopi: la morte apprezzerà quei piccoli particolari della vita quotidiana che gli stessi uomini dovrebbero apprezzare.
La morte appartiene alla vita, ne è dea e serva, e proprio qui lo scrittore ci vuole portare: grazie ad un gioco dell’assurdo, ci si ritrova in una sottile, lucida e ironica analisi sul significato della vita e soprattutto della morte, questa parca tanto odiata ma assolutamente necessaria alla vita stessa.
Francesca Varotto Saramago
(www.excursus.org, anno X, n. 88, marzo-aprile 2018) Saramago