di FRANCESCA DELLI CARRI – Tre ragazzi, la disoccupazione, la paura di rimanere al verde, una rapina dettata dalla disperazione: Succo di cactus gelatinizzato (Carthago Edizioni, pp. 146, € 15,00), il primo romanzo di Antonio Emanuele Aiello, inizia così, nel più “normale” dei modi. Claudio, Glenda e Federico decidono di svuotare l’appartamento di un anziano signore che vedono al supermercato: preda facile e successo assicurato.
Armati di Beretta e pieni di paura, si insinuano nell’appartamento dell’uomo e iniziano a rovistare in cerca di oggetti di valore, ma a un tratto la casa non sembra più così vuota e silenziosa, qualcosa si muove, qualcosa non torna.
C’è un computer che sta funzionando e che ronza rumorosamente. A questo punto la storia cessa di essere “normale”: lo schermo di un computer che diventa un mostro dai mille artigli, un orgasmo fetish, sangue, piscio, allucinazioni e un susseguirsi di azioni frenetiche che si contraddicono l’una con l’altra.
E il romanzo continua esattamente nello stesso modo: qualcosa – un virus, una sostanza tossica, una droga, non si sa – si è impossessato dei tre protagonisti. È il delirio: nulla di ciò che accade d’ora in avanti è reale, almeno non come lo si intende di solito. I tre riescono ad uscire dalla casa e iniziano un girovagare insensato per la città, Catania, buttandosi da un luogo all’altro, cercando di riprendersi e, soprattutto, di capirsi. Antonio Emanuele Aiello
Lo stile, una specie di esasperata stream of consciousness technique, riflette la follia di questi momenti. Il sesso fa da sfondo a gran parte delle azioni: pulsioni erotiche, sequenze feticiste di violenza sessuale e di autoerotismo ricorrono pesantemente nel corso dei vaneggiamenti. Ed è sempre legato al sangue, alla violenza, alla morte, e ad immagini di putrefazione (larve, insetti, fango…). Le regole sono quelle di un gothic splatter, o di un body horror, come viene definito il romanzo nell’Introduzione. Un genere che nasconde tra le sue sequenze più crude e ripugnanti una tematica ricorrente: l’insensatezza e l’incompletezza delle nostre vite, il presentimento che qualcosa ci sfugga, l’urgenza di non essere sopraffatti. L’elemento splatter ha quindi una forte carica eversiva: «la libertà è violenza», dice Claudio a un certo punto (p. 126). Antonio Emanuele Aiello
Nel descrivere la degenerazione delle nostre coscienze, Kafka riecheggia più e più volte, quasi come fossimo in un esplicito remake contemporaneo delle sue opere. Il mondo rappresentato da Aiello è infatti incomunicabilità e non-senso: «Quasi sempre il significato delle nostre azioni è incompleto, il significato più profondo delle nostre parole è segreto» (p. 87). In questo tragico scenario il succo di cactus gelatinizzato, presumibilmente il composto velenoso all’origine dell’infezione, è uno strumento di rivalsa, un’arma con cui ribellarsi alla società: il virus diventa il simbolo e il comun denominatore di tutti coloro che vogliono evadere dall’ipocrisia di massa. L’evoluzione “tossica” che vivono tutti e tre i protagonisti ha alla base il rifiuto netto dei pilastri del sistema di credenze del mondo occidentale: «La gente che parla di etica in genere lo fa perché vuole imporre agli altri un certo tipo di ipocrisia, un sistema di gesti e comportamenti. Gesù propose dei doveri etici ma sebbene egli avesse a sua disposizione i miracoli non riuscì a migliorare l’umanità» (p. 126).
L’evoluzione prende le vesti della metamorfosi, altro elemento ripreso da Kafka: Gregor Samsa, che improvvisamente una mattina si sveglia insetto, ritorna qua in Claudio e con la stessa confusa lucidità e allucinata freddezza, comincia a ragionare su questa nuova prigione di se stesso. «Si sollevò sulle zampe. Cercando di appoggiarsi in avanti su un vuoto che non poteva avvertire. Gli sembrò di essere su due binari e muoversi. Il primo terzo di un centipede. La sua testa era indipendente, si muoveva come fosse essa stessa una mosca» (p. 96). In questo caso però, la metamorfosi in un insetto non specificato è solo la prima di una serie di allucinazioni che vive Claudio e, come ormai si può capire, costituisce il primo passo verso la libertà, verso la ribellione: «Opporsi e fottersene. Finalmente o infine passare da vittima a carnefice kafkiano» (p. 86).
L’irrealtà, le allucinazioni, le visioni psichedeliche e deviate pervadono ogni pagina di questo libro e costituiscono la sua stessa chiave di lettura; una frase, a questo proposito, ritorna più volte: «il cucchiaio non esiste», evidente citazione tratta dal celeberrimo Matrix, a sottolineare ancora una volta la necessità di negare la realtà nei suoi costrutti più ovvi, per delineare un nuovo sistema di significati. Il leit motiv, ripetuto ossessivamente, è: «Bisogna che nei cervelli ovattati entri il ronzio degli insetti». Come in Matrix, siamo tutti delle bambole passive in attesa di essere programmate e usate per gli scopi di qualcun altro, e l’infezione non è altro che la nostra possibilità di svolta, di presa di coscienza: «Il germe, quel qualcosa di nuovo dentro aveva vita propria, una propria energia, in Claudio, in Glenda. Una propria e forte volontà crescente; erano loro gli intrusi in loro stessi e questo l’avevano avvertito entrambi, con sensibilità e tempi diversi» (p. 134).
La metamorfosi finale è esattamente una rinascita. Nell’Introduzione, Luca Lombardo ribadisce proprio questo concetto: «[…] il mio è un invito alla lettura di questo romanzo insolito fino alla sorpresa, un invito alla coscienza vera, la sola cosa che può davvero salvarci dalla banalità tragica della vita» (p. 9).
Francesca Delli Carri Antonio Emanuele Aiello
(www.excursus.org, anno VI, n. 65, dicembre 2014) Antonio Emanuele Aiello