di RITA CASSANI – Molte persone credono che l’arte, del presente come del passato, sia una “cosa da specialisti”. Anche nei corridoi di un museo o tra le rovine di un sito archeologico, capita spesso di sentire la famosa frase: «Io non ci capisco nulla…». Niente è più fuorviante di questo ragionamento, se riferito al romanzo di Chiara Arrighetti, Un’oncia di rosso cinabro (Prefazione di Gabriella Poma, CartaCanta editore, pp. 248, € 16,00).
E il lettore che ne varcherà la soglia si troverà immerso in un mondo diverso e certo lontano dal proprio, ma nel quale non tarderà a sentirsi a proprio agio. Qui, i personaggi realmente esistiti interagiscono con altri inventati, sulla scena della bottega cotignolese degli Zaganelli.
Il paesaggio che fa da sfondo alle vicende è un angolo della Romagna di fine Quattrocento. Un universo multiforme dove la cultura popolare si mescola a quella ufficiale, dove medicina e alchimia si fondono in un tutt’uno e dove, infine, la separazione tra scienza, superstizione e religione è ancora fin troppo fragile.
Di questo universo, di tanto in tanto, l’autrice si prende il gusto di fare brevi quanto pregnanti ritratti, allargando la visuale del lettore a un’intera porzione di umanità. E non solo quando, per ben due volte, il paese al completo è colpito dalla straordinarietà della pestilenza, ma anche in semplici stralci di vita quotidiana: «Lo spettacolo subito fuori dalle mura era desolante. Al posto delle strade si aprivano a ventaglio slarghi fangosi, qua e là disseminati da cumuli di immondizie e di sterco. Bambini crostosi giocavano felici in quel lerciume. Cercavano di acchiappare le zampe posteriori di una grossa scrofa che scavava nella lordura assolvendo, se non altro, alla sua funzione di spazzina».
Il punto di vista narrativo è quello di un giovane apprendista, Stefano di Bondinello. Figlio di un umile pescivendolo, Stefano dimostra fin dall’infanzia un naturale talento per il disegno; entra così in una delle botteghe più rinomate dell’intera Romagna: quella dei fratelli Francesco e Bernardino Zaganelli. Qui cresce, qui impara i segreti del mestiere e conquista la fiducia dei maestri, fino a diventare “secondo aiutante”. Qui si innamora di Luna, la figlia di uno dei due pittori, pur sapendola già promessa sposa. Qui conosce anche chi cercherà di ucciderlo…
Così, conducendoci per mano nella storia del protagonista, Chiara Arrighetti ci invita a spiare, come dal buco della serratura, la bottega degli Zaganelli e la sua fervente attività. Siamo in tal modo proiettati in prima persona nella gestualità antica e sapiente degli artisti del tempo: l’intenditore riconoscerà nomi e pratiche per averle studiate, mentre il non addetto ai lavori imparerà piacevolmente quale fosse la formazione di un maestro pittore, quali colori e materiali si usassero per realizzare quelle opere che tanto ci affascinano nei musei:
«Fu la perseveranza a salvarlo ed innalzarlo più su di quegli allievi già adulti quando lui, ragazzino, era entrato a bottega. La precisione dimostrata nel fare i pennelli di scoiattolo, scegliendo i peli più dritti e più resistenti della coda, la perizia nel legarli con una corda sottile incerata ed ungerli, dopo averli bagnati e strizzati. La pazienza nel macinare i colori sulla pietra proferitica con il rosso d’uovo. La sicurezza con la quale disossava le cosce e le ali di gallina, di cappone o di castrato e preparava per i suoi maestri la polvere d’osso».
In questa alchimia narrativa, in questo delicatissimo equilibrio tra il rigore del saggio e la piacevolezza del romanzo, sta la bravura di Chiara Arrighetti, che riesce a mettere in gioco concetti anche molto complessi senza spaventare o scoraggiare il lettore. Al contrario, l’autrice lo coinvolge e lo incuriosisce con l’incalzare delle vicende, lo seduce con uno stile che sa dosare linguaggio quotidiano e tratti di liricità: «La luna quella notte era piena ed abbagliante, un disco enorme che sovrastava illividendo l’intero paese. Un vento ostinato si alzava da terra e faceva sbattere gli scuri delle case. Tra gli angoli dei vicoli volteggiava a mulinello il solito pattume ributtante, eredità del mercato mattutino».
Il rapporto tra i due fratelli pittori è il perno dell’intera vicenda. Due mondi diversi e reciprocamente estranei, malgrado la volontà sempre presente di restare uniti. «I tuoi lavori! Non si era detto insieme o nulla? La Fraternitas, la nostra società di lavoro e vita, non conta più nulla? Davanti al notaio abbiamo deciso di dividere tutto: la casa, i profitti, le rendite delle terre a Cenacchio, anche le commissioni, te ne sei già dimenticato?». Due personalità separate che Chiara Arrighetti coglie e indaga come storica dell’arte, anima e riveste di carne come narratrice.
Nelle pagine del romanzo i personaggi reali si fanno in questo modo letterari. Le sagome piatte e incomplete che la saggistica più pura ci restituisce si caricano qui di umanità, restando verosimili proprio perché non perdono mai la propria radice storica. A rafforzare questa radice contribuiscono le riproduzioni delle opere degli Zaganelli: esse ci ricordano infatti che i due artisti sono realmente esistiti e hanno lasciato una traccia di sé in manufatti che viene voglia di ammirare dal vivo.
Questo paziente lavoro di integrazione del dato storico con quello letterario è reso possibile solo dalla familiarità che Chiara Arrighetti ha con i pittori di Cotignola e la loro epoca. Grazie a quel coinvolgimento che rende “complici” il ricercatore e l’oggetto dei suoi studi, la dimensione scientifica arricchisce quella narrativa, dandole uno spessore e una vivacità che il lettore percepisce già a pelle.
Sino a un finale che risolve senza concludere, svelando sì gli enigmi contingenti del romanzo ma lasciando intatti quelli macroscopici sui due maestri, a partire da «tutti quei “circa” cha avvolgono le coordinate del loro apparire e sparire sulla terra (nati circa… morti circa…)» (cit. dalla Prefazione). In ciò, l’autrice si dimostra coerente col rigore della propria formazione culturale. Non cerca il sensazionale a tutti i costi, rispetta lo stato delle conoscenze e non lo piega eccessivamente alle esigenze narrative. Evitando invenzioni troppo arbitrarie, riesce a non scadere nella “fantastoria”.
In tutto questo, troviamo difficile e forse superfluo incasellare Un’oncia di rosso cinabro in un genere predefinito. Al contrario, ci piace pensare che l’autrice abbia attraversato le varie stanze del thriller, del romanzo storico e del saggio senza stabilirsi in nessuna di esse, ma raccogliendo in ciascuna gli elementi che le occorrevano per costruire il proprio mondo narrativo. In questo senso ci sentiamo di condividere le parole che Gabriella Poma scrive nella Prefazione: «Si può vivere più vite, e in più tempi e in più spazi, solo che si esca dai confini ristretti che ci sono stati assegnati e si attinga ad altre realtà, vicine e lontane, ad altri intrecci, ad altre conoscenze».
Rita Cassani Chiara Arrighetti
(www.excursus.org, anno VI, n. 56, marzo 2014) Chiara Arrighetti