di ANDREA FRANCESCA FRANZINI – La malinconia di una laguna, la pace dei canali, la vita di una farfalla, il filo per raggiungere un uomo sono solo alcuni dei temi che Marina Donadi intreccia e snoda in Acquario degli Dèi (Edizioni Akkuaria, pp. 64, € 12,00). Nella raccolta la poetessa veneziana unisce al suo lavoro tanta parte della propria vita da non permettere al lettore di distinguere dove finisce Venezia e inizia il «dedalo di ponti e calli» che si sperdono nel labirinto dell’anima della scrittrice.
Certo è che la città lagunare è presente in penna e pensieri, tanto da costruire l’intero primo terzo del libro su canali, pozzi, stagni, gabbiani, marmo bianco e pietra grigia, mentre le pagine si dipingono di mattine color rosa e grigio, grigio perla, rosa e avorio nella nebbia veneziana.
A questa città Marina Donadi dedica lo spazio e il tempo della propria poesia, ma anche un’attenzione speciale mettendo il lettore a parte di quella che sembra un’intima ricerca di pace fra i ricordi della sua Venezia di bambina e di figlia. La città infatti si fonde nei contorni con la mamma e in questa mescolanza si esprime il bisogno di immergersi nell’affetto di entrambe. Così in Malinconia si manifesta la volontà di «tornare a guardarti all’infinito / in frammenti di specchio», di «posare la mano sulla pietra grigia / e diventare una con te». Un desiderio così forte da voler divenire una cosa sola, accompagnato da una paura tanto grande da potersi guardare solo in frammenti di specchio.
Un ricongiungimento che in Rimpianto sorge «dall’acqua come un desiderio», «per quella complicità così profonda / che lega la mia anima alla tua». La donna adulta quindi, che scrive la pace promessa da chi ti ama e il tormento che corrode come l’onda, per ritrovare la familiarità di un luogo e un affetto torna bambina, «chiusa nel piccolo mondo rotondo dei tuoi sogni / come in una laguna», con l’anima che «si raggomitola / nel tepore dei ricordi».
La fragilità legata alle ferite mai rimarginate si manifesta così, in modo un po’ infantile e un po’ malinconico, ma la bambina descritta nell’infanzia che Marina Donadi ricorda è tutt’altro che afflitta: certo, «fragile come un filo d’erba / che sbuca dall’asfalto…», ma allo stesso tempo leggera e profonda, «sospesa in un battito d’ali» che tra mare e cielo si perde nei «giochi dei canali».
Sottile e sfaccettata, l’autrice fa susseguire fasi della vita e maturità di sentimenti come se il lettore, poesia dopo poesia, sfogliasse le pagine anno dopo anno. In Maturità prendono il posto della bambina gli «ultimi fuochi di una vita che fugge» che, lasciatisi alle spalle le frenesie dell’adolescenza, descrivono con gli occhi chiusi il sollievo di un tempo sospeso, che culla, e che ora può aspettare. Senza rassegnazione né nostalgia, ci si fa prendere dal desiderio di «danzare ora che la terra / non è inaridita / sentire ancora il mare in tempesta», forse perché solo adesso che la maturità domina la passione si può vivere a pieno «il vento che travolge / le stagioni che cambiano», con la serenità che la fretta della bambina e della giovane laceravano.
La seconda sezione della raccolta introduce una nuova fase della vita di Marina Donadi, in cui il confronto con l’amore, il sesso e gli uomini viene tradotto nei toni e modi dei miti greci. Si affrontano il rapporto fra uomo e donna, incarnato da Penelope e Ulisse, Dafne e Apollo, Amore e Psiche, la divisione dell’uomo fra sacro e profano e una nuova immagine del labirinto, che da dedalo di calli e ponti, assume improvvisamente i contorni inquietanti di un viaggio senza fine. Raramente ambigua, sembra che l’urgenza della scrittrice vada al di là del comunicare episodi di vita. I primi componimenti delle pagine dedicate ai miti sono sempre intitolati alle donne dell’antichità, vestono le loro vesti e le protagoniste preannunciano la propria sorte, quasi allarmando il lettore delle brutture che dal VIII secolo a.C. si propongono di una sconcertante attualità.
È Dafne la prima a mettere in guardia le lettrici da uomini che feriti per frecce d’amore, stringono con «virili braccia», ignorando il gemere e l’invocare di una ninfa «ignara d’amore». Una denuncia diversa, dall’isola di Itaca, risuona in Penelope, «prigioniera e regina / nella certa attesa dell’eroe padrone». Qui, la «pallida e ferma vestale» cantata da Donadi usa l’astuzia per salvarsi, disfacendo di notte «il disegno dei Proci», mentre attende un marito «pago di mondi diversi / ebbro di libertà e avventura».
In queste strofe inoltre fa la propria comparsa un altro strumento di cui Marina Donadi si serve per delineare speranze e catastrofi poetiche: è il filo della speranza con cui Penelope «tesse la trama della vita», il filo della vita che Arianna srotola danzando a spirale. In cerchio, perché il «dedalo di ricordi», in cui si perdeva da bambina cercando il filo di Arianna che la conducesse alla ragione, ora inganna e non ha via d’uscita. Elena è infine l’eletta per la rappresentazione del sacro e del profano, in cui si riflettono rispettivamente amore e sesso: presentata nella prima strofa come una Dea, che «attende il naufrago fra le dune delle […] gambe snelle», diventa, nella successiva, «bella, come solo può essere una Santa», una sacerdotessa d’amore, a cui nessun vizio è imputabile.
Nello stesso modo si contrappongono il rosso e il bianco come mistero e vergogna, il sangue che tinge i pepli e la verginità, dilaniata nelle fauci di un labirinto. L’alternanza di secoli e scenari si ritrova nel linguaggio: terreno e incolume da dubbi, anche quando Venezia diventa un tutt’uno con l’autrice, che sognava di vestirsi con i colori del Palazzo Ducale o descriveva le anime bianche che abiteranno i suoi edifici.
Capace di mille sfumature, diviene a un tratto fine ed evocativo nella terza parte di Acquario degli Dèi intitolata all’Anima. In questa sezione, il sipario cala sul volo di una farfalla, iniziato sin dalle prime righe. Comparsa per la prima volta trattando il tema dell’infanzia, rimarrà simbolo della speranza e della caducità della vita in tutti i componimenti, trattino questi di fiocchi di neve o dell’ultimo respiro di una Una giovane donna lapidata. La bambina di Mamma Venezia è «sospesa in un battito d’ali / forte come una farfalla nel vento…», e nella stessa città prende la forma di fiocchi di neve.
Le metafore però non esauriscono l’abilità poetica di Marina Donadi e la poetessa cresce con la farfalla, prendendone in prestito la vita per vivere una sera vestita «di luce e di ombre / e d’orgasmo». Di quella farfalla viene infine raccontato il declino, morta d’amore in «un leggero fremito d’ali / come un sussulto…». Di lei si dice che «l’ha uccisa il mulinello della vita», perché non «l’ha spezzata la pioggia / o il turbinio del vento». La stessa farfalla, a nostro parere, si nasconde nei sogni di una giovane donna lapidata, che cullano e cantano per lei, perché anche «arrotolata nella terra / intrisa di sangue e di amore negato», i suoi sogni come lei e come la farfalla «hanno resistito al dolore e non sono morti».
Un libro meraviglioso.
Andrea Francesca Franzini
(www.excursus.org, anno VII, n. 66, gennaio 2015)