di MARIA GIUSY GERACE – Un solo cielo (Prefazione di Giuseppe Amoroso, Pungitopo, pp. 136, € 25,00) a fare da spettatore, quasi distratto, alle vicende umane. Esistenze e storie si dipanano sotto la volta celeste e pagano sempre il prezzo delle proprie azioni. E non c’è scampo alla regola che esige il suo tributo, nel bene e nel male. Il volume di Pietro Venuto ci mette di fronte alle dirette e ineluttabili conseguenze dell’agire umano.
Ad ogni azione segue inesorabilmente una reazione, un processo che porta il marchio dell’irreversibilità. Il risultato? Un attimo di incoscienza e la vita cambia improvvisamente binario e destinazione. Si può tornare indietro da ciò che è stato fatto? Fornire una risposta univoca non è semplice.
L’autore si apre comunque alla possibilità dettata dalla speranza, anche se «[…] la vita spesso non sopravvive a tutte le sue rovine, soprattutto quando è la vita semplice di un pover’uomo». L’unica possibilità è tentare, ma anche in quel caso il risultato di una responsabilità mancata, presa sotto gamba, non sarà facile da gestire e incanalare.
Venuto ci ricorda, attraverso la sua scrittura fortemente aggettivata, che la “caccia alle streghe” non è prerogativa di un Medioevo storico ma si riaccende ogni qual volta la ragione si eclissa. Per introdurci la vicenda, l’autore di Un solo cielo cita Pietro Verri, che avvisa il lettore: «Una sorda diceria sola basta a macchiare il concetto della nostra virtù». Idea remota, profondamente radicata nel sentire comune; eppure è così difficile, quale che sia il motivo, esimersi dal diffondere il morbo della chiacchiera senza uno straccio di prova. I vecchi adagio popolari, nonostante le diverse geografie e latitudini del mondo, non fanno che rammentare quanto malsana sia una simile inclinazione, come quel detto cinese che recita: «Un uomo dice una cosa falsa e quaranta la ripetono come vera».
Tutto questo, Pietro Venuto lo racconta e descrive utilizzando diversi registri narrativi, cambi di prospettiva. Lo scrittore si muove sapientemente su due diversi orizzonti: la realtà dei fatti e il mondo onirico. La sua è una scrittura “sincopata”, come l’ha definita Amoroso, che passa dal lirismo alla cronaca, dalla narrativa alla filosofia, dalla medicina alla sapienza popolare.
Siamo a Sanà, è il settembre del 1944, e il dottore Scaltrito, Paolo, Angelo, Nino stanno per incontrare il loro “destino” infausto, per fare i conti con i demoni di una pazzia senza nome culminata nell’uccisione di un uomo innocente. Destinatari e fautori di un calvario frutto di un momento di follia collettiva. Diventeranno i più disgraziati tra i disgraziati. Costretti a fuggire e a nascondersi, inseguendo l’orizzonte di vaghe speranze; o a vivere attanagliati, come il medico, dai morsi di una coscienza senza requie. A tratti la narrazione si tinge di sfumature cupe, dando vita a quell’immaginario – tipico del piano del sogno – quasi grottesco e soffocante. È tramite l’espediente narrativo dell’incubo che, infatti, riaffiora la cattiva coscienza, alla spasmodica ricerca di pace e redenzione.
Dal delirio della visione alla vita “cosciente” e quotidiana il passo è breve, e l’orizzonte narrativo lascia spazio al fatto nudo e crudo della relazione dei carabinieri e al punto di vista di alcuni dei protagonisti condannati a vivere una realtà gretta. I vari ingredienti si mescolano generando quell’atmosfera che oscilla tra disincanto e ciò che si può ancora sperare. «Non bisogna farsi ingannare dalle apparenze – ci redarguisce Pietro Venuto –, anche se la verità su questa terra, tra gli uomini e i loro pensieri, non è mai una sola e non è sempre la stessa. Muta facilmente sotto i continui colpi di maglio del tempo, smerigliata e modellata dalla memoria collettiva e, soprattutto, da quella individuale».
Ma l’opera – un “romanzo-poesie-racconto” come lo definisce sempre Amoroso – si spinge oltre il resoconto e l’indagine letteraria delle vite e del significato delle azioni di Paolo, Angelo, Nino e del dottore Scaltrito. Conclusa la loro vicenda, a prendere in mano le redini è il Venuto-poeta che indaga la vita e i suoi sconvolgimenti aprendo orizzonti, interrogandosi sul tempo, sull’operato del Divino, nelle liriche che compongono la seconda parte del volume. L’autore si serve di un particolare linguaggio lirico-scientifico per riportare paesaggi, suggestioni, illusioni, esprimere domande, riuscendo a creare un perfetto amalgama tra due poli così distanti, eppure non inconciliabili. Tra la prima e la seconda parte non esiste comunque una netta separazione, come anche tra il Venuto narratore-poeta-medico-cronista. È possibile rintracciare un comune denominatore che lega i temi trattati e il modo in cui sono stati sviluppati.
Ad emergere, infine, è anche l’occhio vigile e attento del cronista che racconta la tragica alluvione di Saponara del 22 novembre 2011. Anche in questo caso la cronaca si sposa con la poesia. La disastrosa calamità naturale che distrusse Saponara, fagocitando in un inferno di acqua e fango case, strade e persone, è una ferita aperta nella memoria. In quell’occasione – ricorda Pietro Venuto –, persero la vita il piccolo Luca Vinci, dieci anni, e Luigi e Giuseppe Valla, padre e figlio, cinquanta e venticinque anni. Nelle sue liriche-racconto Venuto ci catapulta in quell’apocalisse attraverso un’operazione di accostamento dei colori del prima e del dopo, passando dalle calde tinte autunnali dell’«Ocra, terra d’ombra naturale / cremisi alizarina, giallo cadmio / verde veronese, blu oltremare […]» all’ebano delle nuvole «nere e cattive» che preannunciavo, pur nell’ancora indefinito, l’evento che avrebbe cambiato il corso delle vite degli uomini e la geografia dei territori che, da lì a poco, sarebbero stati colpiti.
Perché quel cielo, in una dicotomia, rimane sempre e comunque «Il cielo della vita e della morte. Dell’inizio e della fine. Un solo cielo. Dell’amore e del dolore». Per gli uomini che lo osservano, nessuna risposta certa, solo un orizzonte aperto alle tante domande che prepotentemente si ripropongono nel movimento incessante del tempo.
Giusy Gerace Pietro Venuto
(www.excursus.org, anno VII, n. 66, gennaio 2015)