di MARTA ALTIERI – L’ultima silloge del poeta Nicola Romano (Voragini ed appigli, Pungitopo Editrice, pp. 64, € 10,00) si introduce al meglio al semplice accostamento ossimorico delle due parole chiave del libro: «voragini» e «appigli». Una raccolta di versi che indaga l’inattuabile incontro fra il mondo poetico e il mondo reale, seguendo gli slanci della mente poetica nel vuoto della realtà moderna. Il titolo allude a tale interpretazione: si aprono voragini, ma, comunque, si trovano appigli «dentro un buco nero».
Sarebbe riduttivo affermare che l’appiglio, in questi abissi, sia soltanto la poesia; gli appigli sono invece le stesse vedute, le stesse emozioni e oggetti dell’ispirazione, le «storie sottaciute e serrate nel caveau di uno sguardo», l’«amico vita e notte» nelle parole dell’autore, sono i «responsabili» delle composizioni; rappresentano una presa sicura, quando si tratta di buttarsi.
La poesia di Nicola Romano compare sulla carta stampata in modo singolare; con gli occhi si percorre lo spazio bianco e la si trova lì, in fondo alla pagina, come a dire «leggete, ma non datevene troppa cura»; parla un poeta˗uomo con emozioni terrene, sublimate solo dal linguaggio. Proprio in questo sta uno dei tanti punti forza della sua opera: nella rottura delle aspettative, nell’ironia disincantata e nella potenza del momento raccontato, senza la pretesa di elevarsi a “profeta” o alle “parabole” del tempo moderno.
Ogni componimento manca di titolo, ma è introdotto da un’epigrafe, in cui i versi di autori italiani accompagnano il sentimento espresso da Nicola Romano. Si tratta di una vera rassegna letteraria che addita al dialogo silenzioso degli scrittori e delle opere attraverso il canone dei tempi. Un ulteriore indizio del distacco dal lirismo, dal protagonismo che aleggia dietro le profusioni del verso e del fare poesia. L’autore scrive lì dove si annidano quesiti e questioni irrisolte, nell’intreccio fra interno ed esterno, fra “io” e “altro”, fra il poeta-uomo e il semplice individuo che mancano di reciproca comprensione. «Ma torneranno giubili […] se si reincarna il tempo», «non sarai della gente / non sa scrutare dentro», «ma quando torneremo / al centro delle cose / dentro quel solco antico / che diede luce al mondo?» sono versi che esprimono frustrazione e speranza per un ritorno all’autenticità del pensiero, lontano dalla distrazione dell’effimero.
Oggetti e parole di un tempo odierno, canzonato («free», «wi-fi», «lunapark») appaiono accanto a lemmi obsoleti o ricercati («torma», «soloni», «libertate», «plaghe», «remigante») o specialistici («tolda», «mialgìe», «diorama»), facendo emergere sia la loro debole valenza nel linguaggio quotidiano sia la loro estrema preziosità nella comunicazione del discorso poetico. In questa raccolta notiamo una critica sottesa alla superficialità del moderno, mentre un richiamo alla genuinità del discorso e alla verità delle emozioni si fanno spazio attraverso il tessuto metaforico e iperbolico della poesia.
Al centro regna il tema della scrittura, della parola del poeta che fatica a esser accettata e a trovare un proprio spazio nella contemporaneità («questo tempo frusto / che buttera speranze»). La solitudine della voce e della persona («Non sarai di nessuno») emerge nella sua inevitabilità; il suo tono è consapevole, spesso malinconico, ma ardito nell’usufruire del rifugio dell’arte. Scrivere versi richiede tempo e individualità al di fuori delle tendenze dominanti, lontano dalla massa, ma non così distanti da non poterne osservare le contraddittorietà e le sfumature; esser poeta richiede una sensibilità elevata che nasce spontaneamente dallo sguardo sul mondo e su se stessi, sulla propria diversità che consente di spingersi oltre i limiti delle riflessioni razionali, cedendo il passo a una lingua “altra”, poetica.
Tutto in quest’opera si trova ai margini: il testo; l’io stesso che «come un animale, sente il bisogno di appartarsi quando è ferito»; la parola “haiku” nascosta nel «dimmi se hai kuore»; le emozioni che sgomitano attraverso similitudini, metafore e sinestesie invece di palesarsi al lettore. Al percorrere la «strada dritta» e a seguire «il monotono fluire» che conduce «verso la meta esclusa», il poeta preferisce «porgersi ramo / che svirgola nell’aria». In questo deviare, mentre l’animo si torce e si dipana in percorsi alternativi, la poesia sembra rappresentare l’unico discorso valido in un mondo di «parole fuori sacco / appunti messi a margine / passaggi fuori pista». La scelta di una vita che si esprime in versi è un passo traumatico; l’affaccio sul mondo rappresenta per l’autore «l’assenso all’inquietudine / e al giogo dei pensieri», e accettare il prezzo di una più elevata sensibilità comporta l’esclusione, il rifiuto da parte di quell’ala di “kuore” capace solo di «scene beghine, loffie abitudini, pure offese».
Quello che Nicola Romano ci offre è una sfilata di momenti, di visioni e sensazioni consumate dalla loro stessa energica e repentina manifestazione, stanche di non trovare un posto che gli si addica, se non sulla pagina. Una poesia si succede all’altra come una linea perpetua di scintille che esplodono al principio di un’emozione. Le immagini, che si susseguono come in una fantasmagoria, dipingono fugaci scenari, spesso sul legame fra passato e presente, sul ruolo giocato dal tempo, sulla nostra crescita e sui ricordi che ritornano a tormentare soavemente l’io di oggi. Da una ruota che «impazza» e una biglia che, simbolo del «sicuro approdo», rappresenta la roulette della vita al «cielo bucato» da cui «pure un mistero sgronda», a immagini che prediligono lo scuro, la «notte ialina» e la «Luce che infoca dentro» piuttosto che i «roghi spenti e sterili».
Due componimenti si stagliano all’interno di questa linea poetica in cui emerge maggiormente il gioco sonoro e visivo con la pagina. Nel primo, Romano scrive utilizzando l’allitterazione della “s” e della “r” insieme a fitte paronomasie; ne risulta una commistione di concetti e immagini, in primis della rosa e del colore rosso della passione che sembra inondare tutta la poesia. Nel secondo, abbiamo un acronimo del mese di aprile, in cui compare un riferimento all’opera di T. S. Eliot attraverso un verso della poetessa e traduttrice Maria Luisa Spaziani (1922-2014): «travaglia il grembo della terra, esplode» (da Le acque del sabato, Mondadori). Romano consegna un’immagine simbolica ambivalente della primavera: «ginestre», «nuove lune» e «grilli» si contrappongono al «gelsomino» che «cade» come cede la parola.
La compresenza di emozioni rassicuranti e avvilenti ricorre nel corso della lettura, così come nella raccolta di haiku che chiude la pubblicazione. Commenti acri su situazioni o personaggi odierni, universalizzati in immagini chiave («Tronfio t’assedi / dietro una scrivania / serpe corrotta»), si alleggeriscono grazie alla forma elegante di questo genere di composizione poetica.
In conclusione, la poesia di Nicola Romano si avvicina alla definizione di «parola sottratta alle abitudini», secondo l’espressione del poeta Basilio Reale (1934-2011), poiché dilegua il linguaggio e l’emozione dal vincolo del giorno che «transenna voragini nei cuori».
Marta Altieri
(www.excursus.org, anno IX, n. 83, giugno 2017)